L’ombra di Goya

L’interessante operazione messa a punto dal regista López-Linares consta nel leggere da un singolo punto di vista la produzione del Goya. La scelta di Jean Claude Carrier, storico sceneggiatore cinematografico e stretto collaboratore di Luis Buñuel, fa esattamente al caso della narrazione che si articola inizialmente proprio sugli aspetti comuni tra il pittore spagnolo e il cineasta surrealista.
Entrambi sono aragonesi e sordi. Quest’ultimo aspetto mai secondario, soprattutto per i ritratti dipinti dal Goya in particolare nell’estrema espressività indagatrice degli occhi che sono, di fatto, le orecchie del non udente.
Entrambi hanno concentrato la loro analisi sulla natura della violenza umana ritraendone l’aspetto più brutale, ma al contempo mostrarono una spiccata sensibilità.
Buñuel traduce quei demoni fantastici di Goya in personaggi umani. Se dunque per Goya il sonno della ragione genera mostri, per Buñuel produce le degenerazioni degli uomini, figli della violenza, fantastica e reale al tempo stesso.

L’ombra di Goya è un titolo quanto mai azzeccato in quanto di duplice significato. Un primo significato è da individuare nel racconto delle sue pitture nere, e dunque la serie scandalosa dei Capricci, più vicina concettualmente ad un diario personale che ad un’opera artistica.

Il secondo potrebbe voler sottolineare l’alter ego del Goya di corte – ufficiale e accademico – che, per l’appunto, si manifesta nell’arte di denuncia e nelle stampe macabre. In tal senso le pitture nere sono da intendere come una valvola di sfogo rispetto alla sua attività servile presso Carlo IV.

Amio avviso in questo senso si può utilizzare come metafora-manifesto della sua attività bilaterale, uno dei suoi soggetti più famosi: la Maja.

Per quale motivo Goya decide di dipingere due versioni della stessa persona, una vestida e l’altra desnuda? La Maja è il simbolo del suo dualismo pittorico ed è Goya stesso quindi ad avvertirci che esistono più versioni di un autore, che quella per la corona spagnola non è la sua vera arte ma dev’essere spogliata dagli orpelli barocchi per conoscere il vero, nudo, pensiero dell’artista.

La desnuda – di gran lunga la più interessante – sembra dire allo spettatore “cosa aspetti?”, come oggi farebbero Sharon Stone o Uma Thurman, facendo capire implicitamente che lei non è solo quella che appare ufficialmente, ma è da indagare nel profondo.

Cinema & TV
Elena Salvati

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