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Lo sguardo che salva: la fragile poesia de “La vita davanti a sé”

Silvio Orlando racconta l’infanzia ferita di Momò con delicatezza, misura e una profonda lezione di umanità

Silvio Orlando porta in scena La vita davanti a sé con una scelta chiara e coerente: sottrarre, alleggerire, affidarsi alla parola e alla presenza attoriale più che all’azione. La riduzione dal romanzo di Romain Gary non cerca l’adattamento spettacolare, ma una forma di racconto intimo, quasi confidenziale, che mette al centro lo sguardo di Momò e la sua capacità di attraversare il dolore senza mai perdere l’innocenza.

Il sipario si apre su una costruzione simbolica: una sorta di palazzo composto da cubi di cartone sovrapposti, ognuno con una finestra. È un’immagine semplice ma fortemente evocativa, che suggerisce vite sovrapposte, storie che si sfiorano senza mai incontrarsi davvero. La nostra storia si svolge al sesto piano, senza ascensore, nel quartiere di Belleville, a Parigi. Dall’alto scendono fili di luci che ricordano un tendone da circo, richiamando una dimensione di racconto, di memoria e di infanzia in un’atmosfera sospesa tra realtà e ricordi. Alla base, i musicisti dell’ensemble Terra Madre accompagnano il racconto per tutta la durata dello spettacolo, come parte integrante della narrazione.

Una grande poltrona al centro del palco è avvolta da un foulard rosso. Alcune piccole sedie disposte intorno raccontano già, in assenza di personaggi, la storia di una donna e dei bambini che le gravitano attorno. È un racconto di margine, di periferia umana prima ancora che urbana.

A narrare è Momò, interpretato da un Silvio Orlando che sceglie una recitazione trattenuta, mai caricata, costruita su minimi scarti espressivi. Il lavoro sul corpo, sugli sguardi, sulle pause restituisce un bambino credibile, fragile e ostinato, capace di far convivere ingenuità e consapevolezza. Orlando non imita l’infanzia, ma la lascia affiorare, rendendola il filtro attraverso cui leggere una realtà durissima e spesso invisibile agli occhi di molti.

Madame Rosa, ex prostituta ebrea, si prende cura dei figli delle colleghe più giovani. E tra loro c’è Momò, bambino arabo rimasto orfano dopo l’omicidio della madre da parte del padre. Momò aspetta per tutta la sua infanzia che sua madre venga a trovarlo, come fanno le altre. Non sa che è morta, e continua a sperare. Fa di tutto per attirare l’attenzione di qualcuno, perché spesso ci si sente vivi solo quando qualcuno ci guarda. E quel bambino, disperatamente, cerca uno sguardo.

Momò e Madame Rosa diventano lo sguardo l’uno dell’altra. Un legame che cresce fino ad accompagnarla alla morte, in una lealtà e in un amore che superano ogni brutalità umana, ogni sopruso, ogni viltà. Due vite devastate dalla guerra e dalla prostituzione, due generazioni l’una di fronte all’altra: una vita che finisce e una che comincia.

Silvio Orlando racconta questa storia con estrema delicatezza. Non cerca l’emozione facile, non spinge il pubblico al pianto. La drammaticità arriva piano, si insinua, resta. Non ci sono colpi di scena, ma una dolcezza costante, profonda, che rende l’interpretazione ancora più potente. Orlando è fanciullesco, malinconico, ironico; ed è proprio quell’innocenza tipica dei bambini, a tratti, a strappare un sorriso.

La scenografia, apparentemente statica, si anima grazie all’armonia perfetta tra luci e musica: scatti sincronici che ricordano il montaggio cinematografico, veri e propri cambi d’immagine emotivi.

Nel finale, Silvio Orlando e la sua band regalano una conclusione musicale, ma il momento più toccante arriva con la lettura di alcune riflessioni di Romain Gary tratte dalla sua ultima intervista. Un gesto che va oltre lo spettacolo e diventa atto culturale: non solo raccontare una storia, ma accompagnare il pubblico dentro il suo valore più profondo.

Quel valore è racchiuso nelle parole con cui Gary conclude l’opera: “Bisogna volersi bene.”
Non come consolazione, ma come atto di resistenza in una società che spesso dimentica i margini. La vita davanti a sé diventa così non solo il racconto di un’infanzia ferita, ma una meditazione sulla cura come gesto politico, sull’amore come unica risposta possibile a una vita che, per molti, è già tanto drammatica. Perché se tutte le storie finiscono, ciò che resta  e che dà senso al tempo vissuto, è la qualità dello sguardo che siamo stati capaci di donare, ma anche di ricevere.

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La vita davanti a sé – di Romain Gary – traduzione di Giovanni Bagliolo – Riduzione e regia Silvio Orlando – interpretato da Silvio Orlando – con Ensemble musicale Terra Madre, dal vivo – scene Roberto Crea – disegno luci Valerio Peroni – Costumi Piera Mura – fonico Gianrocco Bruno – Management Vittorio Stasi – organizzazione Maria Laura Rondanini – Teatro Quirino di Roma dal 12 al 21 dicembre 2025

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