“L’irriverente”, l’ultimo libro di Vittorio Feltri: La recensione


di Riccardo Bramante

 

Già dal titolo del libro balza evidente la caratteristica principale dell’autore “Vittorio Feltri- L’irriverente”; e, infatti, l’irriverenza, l’andare sempre contro corrente è stato l’elemento distintivo di questo giornalista che, in qualche modo, ha percorso e talvolta precorso la storia politica italiana degli ultimi trenta anni.

Ben dieci sono stati i giornali che lo hanno visto come inviato speciale o direttore, partendo da un piccolo giornale di provincia “Bergamo oggi” fino al “Corriere della sera”, senza contare le collaborazioni saltuarie con il Foglio, il Messaggero ed altri.

Ed è proprio questa carriera passata sempre in prima linea che Feltri descrive in questo libro in cui, accanto al cronista appassionato e sempre alla ricerca di fatti su cui costruire i suoi pezzi, ci rivela anche gli aspetti più intimi e personali attraverso una serie di “ritratti” di politici, colleghi e gente comune che ha incontrato durante la sua attività.

Allora ecco passare avanti ai nostri occhi figure indimenticate come Giorgio Gaber per il quale compose un verso di una sua canzone e poi Franco Di Bella e Piero Ostellino con cui ha lavorato al “Corriere della sera” quando ne erano divenuti direttori dopo l’uscita di Alberto Cavallari verso cui ancora oggi Feltri non riesce a nascondere l’antipatia, peraltro ampiamente ricambiata.

L’autore ricorda anche, non senza una punta di narcisismo, alcuni degli scoop da lui realizzati come, ad esempio, quello sul caso giudiziario di Enzo Tortora quando Feltri, per nulla convinto della colpevolezza, si adoperò per trovare le numerose incongruenze dell’atto di accusa fino a far riconoscere ai giudici la sua innocenza.

Né meno controverso fu il suo rapporto con i politici dell’epoca; pur essendo un conservatore di destra (un tempo veniva scherzosamente chiamato Littorio Feltri, come egli stesso racconta) non risparmiò frecciate a Silvio Berlusconi di cui rifiutò la chiamata a Canale 5 di Mediaset, o allo stesso Antonio Di Pietro che, dopo un iniziale appoggio quando quest’ultimo era ancora un oscuro magistrato del Tribunale di Milano, lo ricambiò, nei successivi anni di “Mani pulite” con diverse denunce per diffamazione a mezzo stampa. Per non parlare, poi, di Bettino Craxi a cui Feltri imputava arroganza e propensione alla corruzione affibbiandogli anche il soprannome di Cinghialone.

L’atteggiamento cinico ed impertinente si stempera, invece, quando l’autore viene a parlare della sua infanzia, della perdita prematura del padre e dei grandi sacrifici affrontati dalla madre, a cui era attaccatissimo, per provvedere da sola ai tre figli e della sua “scoperta” del Sud dell’Italia quando per la prima volta si allontanò dalla sua Bergamo per andare a trovare uno zio nel Molise.

Ma cedere al sentimentalismo non è certo una prerogativa di Feltri che dedica l’ultimo capitolo del libro ad un ampio excursus sui suoi…gatti; che abbia voluto mettere, con la sua malizia innata, questi ultimi alla pari con i personaggi prima descritti?