Simone Bozzelli

L’intervista a Simone Bozzelli regista del video dei Måneskin

Riprendono gli appuntamenti con i talenti del mondo artistico e questa volta incontro un ragazzo che potremmo definire enfant prodige. Si tratta di Simone Bozzelli, regista diplomato alla Naba di Milano e poi al Centro Sperimentale di Cinematografia, già autore di cinque cortometraggi: Mio Fratello (2015) e Loris sta bene (2017), entrambi presentati in numerosi festival cinematografici internazionali. Il suo cortometraggio Amateur (2019) è stato in concorso alla 34° Settimana internazionale della critica di Venezia. Seguono J’Ador (2020) e Giochi (2020). Ma se questi titoli ancora non vi dicono nulla il video clip dei Måneskin, I wanna be your slave è stato diretto proprio da Simone Bozzelli.  

Come è iniziato il tuo rapporto con il cinema? Quando hai deciso di diventare regista?

È tutto iniziato al contrario, non dalla scrittura ma dal montaggio. Volevo fare il montatore, per me era una cosa importante e mi piaceva tantissimo. Ero molto abile al computer e al tempo stesso mi piacevano i film. In effetti mi dava davvero gusto creare una narrazione per immagini servendomi del computer. Poi è successo che mentre frequentavo l’Accademia di Design Multimediale a Milano c’era un corso in cui ci venne chiesto di realizzare un cortometraggio. In quella occasione mi sono impegnato da tutti i punti di vista, lavorando a 360 gradi, dalla scrittura alla produzione alla regia, ed è stato lì che mi sono accorto che tutto questo mi piaceva, che mi piaceva la regia.

Ho trovato che questa cosa fosse molto terapeutica, avere un sentimento e dargli una forma narrativa. È un’arte in cui mi rispecchio facilmente, più consona a quello che sento. Infatti dopo quel primo cortometraggio ne ho fatto un altro e ho capito che mi piaceva mettere in forma narrativa quello che avevo dentro.

Simone Bozzelli
Amateur (2019)

Come si chiama il tuo primo cortometraggio?

Mio fratello, e si vedono tutti i limiti del primo lavoro, soprattutto miei. L’interprete era Andrea Arcangeli che adesso è affermatissimo ed era già bravo da allora. Abbiamo fatto i primi esperimenti insieme. Una cosa di cui mi pregio è che ho sempre cercato di raccontare storie che in proporzione rispettavano i mezzi che avevo. Non ho mai cercato di fare Ben Hur con 500 euro. La maggior parte dei progetti, con tutte le migliori intenzioni, fallisce da questo assunto qui. Magari si hanno pochi mezzi e si vogliono comunque fare le cose in grande, invece quando ho capito di avere pochi mezzi ho voluto fare un corto semplice con due attori in una stanza.

Non ho i soldi per arredare la stanza? Benissimo, si sono appena trasferiti, ci sono solo pacchi in giro. In questo modo ti puoi concentrare meglio su altre cose e non sprecare troppe energie.

Prima di proseguire su questo discorso della regia, vorrei domandarti qualcosa sulla scrittura e in particolare sulla fase creativa. Da cosa parti quando inizi a pensare a una storia? Cosa attira la tua attenzione?

Sicuramente una situazione, un evento o una frase che mi colpisce. Per esempio per Loris sta bene: un ragazzo decide di prendere l’HIV.  Oppure un’immagine come in Amateur, una ragazza in sovrappeso che ingenuamente grugniva per far ridere un’altra persona. Quasi sempre sono delle situazioni che mi colpiscono a dare l’avvio, sono come gocce di rugiada in cui si riflette tutto il mondo. Una cosa così piccola, così particolare che però riflette un’emozione molto più grande. Tutto il mondo in una goccia, in un dettaglio.

Per esempio rispetto ad Amateur che citavi, trovo che quel corto sua una botta allo stomaco. L’ho sempre identificato come un lungometraggio. Senza nulla togliere ai corti, aveva quella intensità che in passato ho provato con i lunghi. Ha proprio quella caratteristica Amateur, una piccola goccia che riflette tutto un mondo. Quello che fai secondo me è raccontare molto bene delle situazioni reali, dove per altro mi ci riconosco anche se non le ho vissute, c’è una tavolozza di emozioni molto intense che poi ti rimane dentro. A volte capita che un corto resti lì dove è nato senza lasciare il segno, ma non credo sia il tuo caso. Dal punto di vista emozionale i tuoi corti possono fare scuola.

Tra l’altro Amateur è nato a Napoli, la prima volta che ne ho parlato è stato con lo sceneggiatore che ha collaborato con me alla scrittura del cortometraggio, Celestino Pietro Pesce. Quello che dici mi fa molto piacere e mi fa pensare a una cosa, spesso ci si avvicina al cinema per motivi molto tecnici, non so, perché si ama la fotografia oppure si è appassionati di macchine da presa, si pensa quindi che il film sia molto legato al filmico. Tutto ciò che è macchina da presa e tecniche relative. Trovo più interessante il pro-filmico, tutto quello che c’è davanti alla macchina da presa e spesso si confondono le due cose. Perché tante volte si pensa che fare cinema significhi fare un bel movimento di macchina, una bella fotografia, un montaggio virtuoso e invece a me piace molto tutto ciò che è emozione. Faccio tutto questo per riprodurre delle emozioni, ovviamente emozioni che io per primo comprendo e ritengo cinematografiche. Tutte le emozioni che proviamo nella vita possono essere metaforizzate o esagerate in qualcosa che può diventare cinematografico e narrativo. Purtroppo la semplicità di Amateur, si sta rivelando qualcosa per me di difficile riproduzione. Al momento sono alle prese con la scrittura del mio primo lungometraggio è le cose sono un po’ più complesse, anche se cerco continuamente di ottenere lo stesso risultato di Amateur.  Purtroppo la semplicità e l’immediatezza di certe emozioni sono difficilissime da raggiungere.

Simone Bozzelli
J’Ador (2020)

Puoi anticiparci qualcosa del lungometraggio?

Posso dirti che parte sempre da fatti personali che, come sempre, voglio esagerare così da restituire una fotografia della mia timeline emotiva di un passato prossimo. Lo sto scrivendo con Tommaso Favagrossa, lo stesso sceneggiatore con cui ho collaborato per i corti J’Adore e Giochi.

Mi vorrei ricollegare un momento alla tua formazione e parlare di questo colosso che è il Centro Sperimentale di Cinematografia. Come ci sei approdato, cosa ti piace del Centro e, se puoi dirlo, cosa non ti piace di quella scuola?

Innanzitutto al Centro ci sono entrato tre anni fa, ho appena finito, come si sa le selezioni sono tostissime. È una scuola e come tutte le scuole ha i suoi pregi e i suoi difetti. Un pregio è stato senz’altro conoscere tante persone che come me volevano fare a tutti i costi (nel vero senso della parola) questo mestiere. La fase della selezione, quella del propedeutico è sicuramente un momento molto stressante in cui vieni messo alla prova e c’è molta pressione. Puoi mostrare tanto il meglio, quanto il peggio di te stesso. Devi competere con tante persone, amici che condividono la tua stessa sorte e questo in un certo senso vi mette l’uno contro l’altro.
Se ne parla tanto perché essendo una scuola elitaria vive di miti e leggende che portano ad un corto circuito.
Dal mio punto di vista è servito tanto a conoscere le persone con cui tutt’oggi lavoro e ho intenzione di lavorare.
Dal punto di vista formativo non ho trovato una linea chiara e omogenea nei tre anni. Ci sono dei corsi significativi, che hanno lasciato il segno ma che magari sono durati solo un semestre, per esempio quelli con Gianni Amelio o Daniele Luchetti. Altri corsi purtroppo non li ho trovati utili. Un’altra cosa importante che c’è da dire è che anche in altre scuole, non solo nel Centro, una caratteristica importante è, non solo nella formazione in senso più teorico, ma anche la consapevolezza del linguaggio audiovisivo che è quello che determina il cinema. Oggi questo linguaggio si sta contaminando con altri linguaggi, viviamo in tempi fluidi da tutti i punti di vista. In cosa si distingue il Centro rispetto alle altre scuole? Ti mette a disposizione un budget.

Il problema, spesso, per chi è fuori dal Centro e vuole produrre il suo primo corto è in effetti proprio il fattore economico…

Io per esempio prima di approdarvi ho fatto la Naba (Nuova Accademia di Belle Arti) a Milano che aveva Marianna Schivardi, un’insegnante che mi ha aperto il mondo e che mi ha aiutato tantissimo, insegnandomi tutto quello che so. Purtroppo la Naba non aveva mezzi economici di cui disporre, per quanto vi fossero i mezzi tecnici magari e questo per molte scuole diverse dal centro può costituire un discrimine.

Loris sta bene (2017)

In linea di massima tu ritieni che sia necessario passare da una scuola per fare questo mestiere? Se sì, credi che la scuola serva soprattutto da un punto di vista teorico o pratico?

Secondo me la scuola non è per forza un passaggio importante, ma è vero che fornisce dei fondamentali che magari a diciotto anni non hai. È anche vero che se hai un gruppo di amici con cui vuoi fare delle cose, può crearsi senz’altro un dialogo bellissimo ma servono anche, necessariamente, le competenze tecniche e delle figure professionali precise. Non possiamo fare che ci accolliamo una volta per ciascuno quello che c’è da fare. Per questo la scuola diventa importante per formarsi in un ruolo preciso. Il cinema è fatto anche di ruoli.
In una scuola trovi persone come te con cui condividere delle passioni ma ti indirizza soprattutto verso la tua inclinazione. Si crea così, in nome della stessa passione, una eterogeneità.
Un’altra cosa importante che ti dà la scuola sono le scadenze, cosa che di solito non ci si riesce a dare da soli, perché spesso si tende a procrastinare.

Sul montaggio poi ci sei rimasto? I tuoi lavori te li monti da solo?

I primi corti me li sono montati da solo, poi ho conosciuto il mio attuale montatore Christian Marsiglia e mi sono trovato talmente bene nel confronto con lui davanti alla timeline che ora non posso davvero farne a meno. Sai capita che ti scrivi una storia e ti immagini una tua personale timeline e quando poi vai a girare la linea della storia è già diversa da come l’avevi pensata. La maggior parte delle volte cerchi di riprodurre l’idea che ti sei fatto ma poi accade che l’incursione di una nuova persona con uno sguardo diverso riesce a portare la tua idea verso qualcosa di concreto anche migliore rispetto a quella che avevi. Ti fa vedere la storia da un altro punto di vista.

Ripensando a quello che dicevi sulle scadenze mi viene in mente che a volte si è preda di una sorta di paura quando si scrive, si teme di non sapere cosa si vuol dire o di dire troppo. Nel momento in cui scrivo, certe volte mi accorgo di provare una sorta di vergogna, un pudore che mi blocca, mi fa provare un rigetto. Quali sono le paure principali che ti assalgono nella fase di pre – produzione di un film? Nella scrittura in particolare cosa ti blocca o ti fa preoccupare?

Per me è molto difficile scrivere di getto, invidio chi ci riesce, forse perché ho fatto già due scuole, leggo molto, sono super insicuro per cui alle cose ci devo pensare bene. Devo sempre trovare una nuova griglia, un nuovo schema e mi rendo conto che le cose a volte dovrebbero essere buttate giù nella maniera più naturale possibile e poi usare le strutture per mettere ordine, come griglia di controllo per verificare che tutto quello che ho scritto nella maniera più naturale possibile regga bene e stia in una certa regola.
Perché per quanto possa essere sincero quello che scriviamo, deve anche essere universale e comprensibile per tutti. A questo servono le strutture. Purtroppo scrivo una parola al giorno ed è sempre ragionata. Un’altra paura che ho è che a volte la troppa sincerità che per noi magari è molto autentica forse è la via più didascalica per far passare un concetto che poi rischia di diventare banale. Anche una cosa molto sentita devi sempre vedere se non è un luogo comune.

Simone Bozzelli
Clip da I wanna be your slave (Maneskin 2021) regia di Simone Bozzelli

A proposito di informazioni e di conoscenza, cosa ti piace leggere e cosa ti piace guardare?

Leggo molto poco, riesco a iniziare libri che poi magari non finisco se non mi interessano. Un libro mi deve essere consigliato da almeno tre persone che mi conoscono davvero bene affinché io possa dirmi interessato e iniziarlo. Ho difficoltà a mantenere l’attenzione, magari riesco a finire un film di quattro ore che dopo già dieci minuti capisco che non mi piacerà piuttosto che un libro. Forse perché alcuni mezzi sono più congeniali di altri, si addicono di più alla personalità. Nel mio caso mantengo alta l’attenzione più facilmente con un film che con un libro. Quindi il libro mi deve piacere davvero molto perché io lo finisca. Leggo molta saggistica, più che narrativa, mi piacciono i testi di psicologi per esempio che analizzano casi di loro pazienti. Oppure mi piacciono i crime, infatti seguo tutte le storie che sono il meno possibile filtrate dall’autore e dalla forma narrativa. Mi piace in ogni caso che ci sia una base di realtà nella letteratura.
Per quanto riguarda i film sono sempre alla ricerca di opere che non ho visto ma che avrei dovuto vedere.

Sei di quelli che segue la regola per la quale certi film sono imprescindibili e vanno visti, soprattutto se si vuol fare questo mestiere oppure te ne freghi anche un po’ se non hai ancora recuperato quel film di cui parlano tutti?

No, anzi, secondo me più film non hai visto e maggiore è la serenità nel fare le cose, perché non hai il peso dell’esempio di chi ti ha preceduto. Forse ci vuole anche un po’ di incoscienza. Non si ha il fardello di confrontarsi con i grandi, è ovvio che se hanno già fatto 2001 Odissea nello spazio che altro puoi fare?
Preferisco vedere dei film imperfetti in cui posso scorgere quello che di buono c’è e vedere cosa posso fare io per rifare magari quella cosa anche meglio. Ci si trova sempre qualcosa di se stessi, anche nei film imperfetti, che possiamo riprendere e magari provare a fare meglio. Ecco questa cosa per esempio mi aiuta di più che guardare un capolavoro indiscusso su cui c’è poco da ragionare e migliorare.

Simone Bozzelli
Amateur (2019)

L’ultimo film che hai visto e l’ultimo libro che non hai finito?

L’ultimo film che ho visto, anzi rivisto, è Lo sconosciuto del lago, un film bellissimo. Il film che avrei voluto fare io dal primo all’ultimo frame. L’ultimo libro che non ho finito invece è stato Confessioni di una maschera di Mishima. Un libro che per esempio ho letto tutto d’un fiato è La città dei vivi di Nicola Lagioia.

Veniamo adesso ai Måneskin, come è iniziata la collaborazione, come è stata l’esperienza e che differenza hai riscontrato nel girare il videoclip rispetto a un film?

Innanzitutto devo dire che l’esperienza è stata bellissima e che sono contento di aver girato questo videoclip con loro, ma soprattutto sono contento di averlo fatto in particolare con questo brano (I wanna be your slave). Mi stanno arrivando tante proposte ma cerco sempre di mantenere la coerenza con me stesso e quindi scegliere dei progetti affini al mio modo di essere e di girare.
Scelgo temi e storie che rispettano la coerenza tematica che mi appartiene. Alcune volte per mantenere questa integrità ho dovuto dire dei No che non sono mai semplici da dire, soprattutto di fronte a certe proposte. In questo caso il Sì è stato immediato e non perché si trattava della rock band italiana del momento ma perché tanto era legato al testo della canzone che mi piaceva e affrontava secondo me delle tematiche molto interessanti e vicine a me.

Infatti in base ai tuoi corti devo dire che ci ritrovo la coerenza di cui parli nel videoclip di I wanna be your slave, ha senso che lo abbia girato proprio tu. I temi del brano sono molto vicini a quelli che tratti di solito…

Sì e credo anche che quella canzone racconti non tanto una fluidità sessuale quanto piuttosto una fluidità di ruoli all’interno di una relazione e non per forza sentimentale in senso stretto. Master e slave sono due ruoli opposti che in qualsiasi rapporto non sono mai fissi. Un giorno posso essere più potente io, un altro puoi esserlo tu. È un continuo braccio di ferro e per questo motivo trovo che questo brano sia geniale, anche perché non si ferma alla fluidità di genere ma anche a quella di ruolo. Nei miei film infatti mi piace parlare di questo tema.

Com’è stato il dietro le quinte del videoclip e il lavoro di preparazione con i Måneskin?

In quel periodo loro erano molto impegnati perché avevano appena vinto l’Eurovision, erano appena partiti per un tour europeo, ci sentivamo soprattutto via skype. Loro sono in cinque ma la cosa bella è che Damiano la figura principale su cui convergono le decisioni, il loro modo di decidere è assolutamente democratico e paritario. Sono cinque voci con lo stesso volume e questo aiutava anche me nel lavoro. Aurora Rossomanni, una mia carissima amica è loro art director e coordinava il lavoro, su di lei convergeva tutto. Loro hanno un’idea molto chiara di ciò che vogliono essere, della loro immagine e dei concetti che vogliono far passare.
C’è stato un bel lavoro di squadra di cui sono molto contento. Ovviamente la differenza col girare un cortometraggio è il fatto che per un corto il tuo cliente, pur essendoci una produzione, sei sempre tu e devi tenere conto soprattutto delle tue decisioni. Nel caso del lavoro su commissione devi tener conto del gusto di chi ti ha chiesto il lavoro. Per cui le aspettative sono anche più alte e non sono soltanto le tue e quelle della band in questo caso, ma anche quelle dei fan.  Questa cosa, insicuro come sono, è stata la parte più difficile.

J’Ador (2020)

Come avete girato? I Måneskin si sono affidati completamente a te oppure avete fatto una sorta di co-regia?

Abbiamo girato in pellicola e loro si sono affidati a me anche se allo stesso tempo ho richiesto che sulla carta ogni cosa fosse approvata da loro prima di andare a girare, con foto di reference e tutti i dettagli del caso. Proprio come se fosse la sceneggiatura di un film, così da non avere sorprese sul set, né per me né per loro.

Come gestisci le tue insicurezze?

Non le gestisco facilmente, ma è ovvio che fare questo mestiere implica darsi delle griglie di sicurezza, quelle di cui parlavo prima, che insieme alla voglia di fare portano poi ad avere anche maggiori certezze. Una sicurezza che per me si raggiunge mettendo tutto su un foglio di carta e magari servirsi di quelle stesse insicurezze per creare qualcosa. Questo per esempio mi aiuta molto.

Vorrei chiederti un tuo libero pensiero sul mondo artistico di oggi. Secondo te un giorno anche noi avremo il nostro posto senza più dover chiedere permesso e senza dover scalpitare, sentendoci etichettati come “giovani”, pur con qualche anno di esperienza alle spalle?

Quello che dici è vero. Sono contento ci siano persone come te che si pongono questa domanda e al tempo stesso cercando di porla agli altri. È anche vero però, che siamo noi i primi a cercare un’opinione, bisogna essere curiosi verso gli altri e guardare ad altri punti di vista. Però di solito chiediamo un’opinione a qualcuno di cui ci interessa e rispettiamo il punto di vista.
Seguendo la tua domanda aggiungo un pensiero: perché non cerchiamo persone nuove, nuovi punti di vista, ai quali porre certe domande?

Non pensi che forse è anche un nostro errore quello di cercare approvazione dai “grandi” affinché ci dicano che siamo stati bravi? Forse ci possiamo legittimare da soli, invece continuiamo a chiedere permesso…

Assolutamente sì, mi sembra che funzioni un po’ tutto così. Questo discorso si intreccia anche con quello dell’insicurezza che abbiamo già fatto. Se sei di base una persona insicura come fai a pretendere di essere sullo stesso piano degli altri che stanno sopra di te.
Bisognerebbe innanzitutto fare un lavoro su noi stessi.

Come ti vedono in questo mondo? Ti senti accettato dai “grandi”?

Posso fare l’esempio dei fratelli D’Innocenzo che mi hanno sempre incoraggiato, fin dai tempi di Amateur, mi hanno invitato sul loro set e prendo loro come esempio perché appunto rispetto al nostro discorso sono già grandi ma sono relativamente giovani, sia anagraficamente che professionalmente, perché sono al loro terzo film. E nonostante il loro successo dimostrano solidarietà verso gli altri esordienti come me, verso i coetanei, fanno gruppo, non creano distanza e secondo me questa è una cosa molto bella che la vecchia guardia non aveva e che tutt’ora non ha nei nostri confronti. Questo mi dà una sicurezza in più per andare avanti e per raggiungerli.

È una cosa molto importante quella che dici perché in effetti non dobbiamo trovare la forza in noi stessi, da soli, ma anche tra di noi, facendo rete, perché forse la risposta è quella.

Forse il peccato originale sta proprio nella competizione che si crea nella scuola, se tu fai cinema io ne devo fare di più. Questa competizione non è sempre sana, anzi. La mia grande paura dopo cinque cortometraggi è quella di dover mettere il mondo in 100 pagine, per il lungometraggio, anche se con Favagrossa ci troviamo benissimo nella scrittura e stiamo lavorando bene. Però la paura della banalità è sempre dietro l’angolo e questa cosa mi preoccupa sempre e mi mette un po’ in ansia. Penso che siamo una generazione che vive di questi cortocircuiti secondo i quali sembra che possiamo avere tutto e che la fluidità fa da padrona, ma poi ci raccontano comunque la favola del principe azzurro nella maniera più tradizionale possibile. Ho paura di cadere in queste cose qui.

Forse perché siamo oggettivamente confusi e non in grado di scegliere. Dobbiamo per forza etichettare le cose anche se ci raccontiamo che siamo liberi…

Esatto dobbiamo inserire nella griglia anche le cose più progressiste e in un certo senso è giusto anche questo, è giusto avere un lessico comune, ma poi si finisce per catalogare ogni cosa. Basterebbe metterci in pace con questa cosa e andare avanti provando a realizzarci come desideriamo, cercando di essere sempre coerenti con noi stessi.

Mentre concludiamo la nostra conversazione, Simone Bozzelli mi accenna dei prossimi progetti, nulla che al momento si possa rendere ufficiale, vi basti sapere che sentiremo ancora parlare di lui. Dopo il suo primo lungometraggio, inizierà la scrittura di una mini serie tv sulla quale al momento non è ancora possibile rivelare nulla.