di Tiziana Bagatella
Il “Giardino dei Tarocchi” il celebre parco popolato di statue ispirate alle figure degli arcani maggiori dei tarocchi, situato tra le colline prossime a Capalbio, è sicuramente molto conosciuto, ma poco si sa dell’artista che lo ha creato. Lo spettacolo “L’imperatrice- la straordinaria vita di Niki de Saint Phalle” andato in scena al Teatro dei Documenti dal 4 al 7 novembre, scritto da Roberta Calandra, magistralmente diretto da Mariano Lamberti e interpretato da una Caterina Gramaglia in stato di grazia (forse guidata dal suo “daimon”), ha contribuito a colmare questa lacuna, regalando al numeroso pubblico presente molte emozioni e riflessioni.
La vita dell’artista franco-americana, scomparsa nel 2002 a 72 anni, è raccontata in maniera originale e profonda dall’autrice Roberta Calandra, attraverso la lettura dei tarocchi nell’interpretazione che ne dà il grande Alejandro Jodorowsky. Un cahier de doleances, un diario intimo quanto sofferto della sua tormentatissima esistenza, segnata da un abuso paterno in giovanissima età, da un ricovero in manicomio e soprattutto dal suicidio di due fratelli, e pur alla fine riscattata da grandi trionfi artistici. Le sue opere sono esposte in tutto il mondo, e “Il giardino dei Tarocchi” è il culmine della sua arte, alla costruzione del quale dedicò un ventennio. Nella magica cornice del Teatro dei Documenti ideato e costruito con le sue mani dal grande scenografo Luciano Damiani (restano nell’immaginario collettivo le sue scenografie del Giardino dei Ciliegi di Strehler) il regista Mariano Lamberti concepisce lo spettacolo su due piani narrativi. Il primo in cui Nicki-Caterina racconta la sua vita- fasti e precipizi- e un secondo livello narrativo che si svolge sottratto agli occhi del pubblico.
Vediamo tre volte l’attrice calarsi in questa botola-inconscio. La prima, avvolta in una luce rossa, il suo inferno personale-emotivo; la seconda, quando il marito la costringe ad un manicomio forzato in cui la luce si tinge di un blu purgatoriale, dal quale l’artista ne esce trasformata-frastornata, ma finalmente con la sua identità di artista; e l’ultimo stadio, un bianco abbagliante, albedo alchemica nella quale Niki purificata dai suoi dolori consegna alla gloria futura la sua vita. A pensarci bene, il rosso, il blue e il bianco sono i colori della bandiera francese, simbolo della libertà, dell’uguaglianza ma soprattutto della possibilità di riscattare la propria vita attraverso l’arte. E Niki de Saint Phalle è stata forse la prima artista donna ad arrivare a vette così alte, fino ad allora accessibili quasi solo ai suoi colleghi maschi.
Commovente è l’accostamento che il regista fa con un’altra icona della cultura francese, il “passerotto” Edith Piaf, entrambe segnate da una artrite reumatoide che le distrugge nel corpo ma non nell’anima, e vengono i brividi a vedere Caterina Gramaglia vecchia, ingobbita, accartocciata, mentre canta Je ne regrette rien che sia avvia sorridendo verso una morte rappacificata, con la sua voce fuori campo che recita: “La morte non esiste c’è solo la trasformazione”.