Lillà di plastica ovvero: Più vera del vero

Dal 29 dicembre all’8 gennaio è andato in scena al Teatro Marconi la commedia “Più vero del vero” di Martial Courcier con Felice Della Corte, Valentina Corti, Riccardo Graziosi per la regia di Felice Della Corte.

Molto più di un’assistente vocale: l’umanoide RCA 222 è una vera e propria macchina, ma in tutto e per tutto simile ad una persona. Utile ad aiutare in casa o a fare compagnia, questo prodigio della tecnica è il regalo che Francesco (interpretato da Riccardo Graziosi) ha fatto al suo amico Giulio (interpretato da Felice Della Corte).

L’umanoide RCA 222, dal nome Cloè (interpretata da Valentina Corti), arriva in casa tutta impacchettata ed è corredata di scatola di imballo, di libretto d’istruzioni e di batterie, tipo pastiglie, che deve assumere oralmente una volta al girono per rimanere “sveglia” e funzionante.

La scena del disimballaggio del robot poteva ricordare l’episodio che nel film Grandi Magazzini del 1986 vide come protagonista Paolo Villaggio. A teatro l’umanoide si mostrava ancora legnoso nei movimenti e letteralmente macchinoso nel parlare. Una rigidità che scaturiva da un rapporto “macchina” e” padrone” che fa venire in mente un’altra pellicola, Io e Caterina del 1980 con Alberto Sordi.

Rispetto a quest’ultimo film citato, nella commedia non ci pare più assurdo e inverosimile parlare con una macchina. Più vera della vero è un testo teatrale scritto da Martial Courcier e nominata al premio Molière del 2002, per la sua tematica risulta più che mai di estrema attualità. Ai dispositivi tecnologici odierni ormai non manca più nemmeno la parola, e varie forme di intelligenza artificiale sono sempre più parte integrante della nostra attualità. Gli assistenti vocali sono in molte case e manca loro solo una pelle calda… quella che ha Cloè.

Nella sua apparente leggerezza, Più vera della vero solleva questioni e tematiche molto interessanti. Giulio, il proprietario della “macchina”, dapprima diffidente in breve tempo s’innamora del dispositivo. Allo stesso tempo parrebbe che anche il dispositivo si sia innamorato del suo padrone.

Se nella pellicola Caterina non si riconosceva allo specchio e Alberto Sordi doveva insegnarle a lavare i piatti, Cloè risulta – completata la fase demo – spigliata e in tutto verosimile all’essere umano.

L’infatuazione della macchina sarebbe ulteriormente provata dal fatto che quest’ultima non sa di esserlo e prova ne è il fatto che, ad un certo punto, decide di voler avere un bambino con Giulio. Si stupisce che tagliandosi per sbaglio, dalla ferita non esca il sangue. Cloè non è un avatar ma una macchina con intelligenza artificiale, dentro (o dietro) non c’è una persona in “carne ed ossa” ma solo un programma al computer.

Il finale è tragico e pone molti interrogativi: se l’intelligenza artificiale nasce da codici di programmazione si potrebbe dire che anche noi umani abbiamo un pensiero che, nel nostro cervello – semplificando – nasce in fin de conti “solo” da impulsi elettrochimici.

Intanto, nel presente questa commedia ci è piaciuta, sia per la storia che per gli attori: divertente, spontanea, emozionante. Per quanto riguarda invece il futuro e gli sviluppi della tecnica, quello si vedrà.