L’eredità spirituale di Rasim Sejdić

Tra le vittime dell’Olocausto ben 500 mila erano zingari. Un omaggio a un popolo che non dovrebbe esistere ma c’è…..

Rasim Sejdić era uno scrittore e poeta di etnia Rom, nato nella Repubblica Serba, a Vlasanica,in Bosnia nel 1943, pochi anni dopo la Seconda Guerra e prematuramente scomparso nel 1981 a Sarajevo, capitale della Bosnia-Erzegovina, a causa di un problema renale. A Vlasanica ha frequentato le scuole elementari, medie e superiori, poi a Sarajevo ha seguito un corso di giornalismo.

Casa natale di Rasim a Vlasanica

Basta osservare il suo volto, scolpito dal sole e dal viaggio, dallo sguardo luminoso e attento, dalle traversie di una vita vissuta col cuore. Negli occhi il miraggio di un posto confortevole, di un arrivo senza partenza, di una sosta nel sole dell’accoglienza. Abituato a vivere l’oggi, senza il pensiero del poi, colmo dei ricordi di ieri, non poteva essere che un poeta il cappellone abbronzato dal naso camuso, dagli occhi luccicanti di consapevolezza.

Apparteneva a una famiglia del gruppo dei Xoraxané Romà, ossia Rom di origine musulmana: koraxaj in lingua romaní significa letteralmente “turco” e per traslazione si intende “di confessione musulmana”; sono provenienti dalle regioni balcaniche di Macedonia, Albania, Bosnia-Erzegovina. Sono divisi in tanti sottogruppi e Rasim era del sottogruppo Koraxanéćergarija, ossia “quelli delle tende” dal serbo-croato ćerga che significa appunto “tenda”.

Rasim è stato un ragazzo precoce, come tutti i giovani rom: aveva solo 14 anni quando si intratteneva piacevolmente a cantare, suonare la chitarra e scrivere racconti e poesie nelle sue due lingue, il serbo-croato e il romanès. E tutti i membri più giovani della sua familje (famiglia in senso allargato simile al concetto di tribù) lo ascoltavano, come si ascolta un cantastorie che trasmette al suo popolo le tradizioni millenarie degli antenati. Gli piaceva narrare soprattutto Fiabe, Storie, Poesie. Il suo mondo traboccava di racconti, del bisogno di esternare i quadretti che la vita quotidiana gli mostrava, di dipingere le emozioni della sua gente, la gioia del canto e il trasporto della danza, il fraseggio musicale che comunicava le vicende del cuore. Raccontava la vita vera, fatta non solo dei piaceri della quotidianità, ma anche della denuncia dei soprusi, della discriminazione e delle persecuzioni. Era un poeta dell’amore, del quotidiano, della denuncia sociale, perché i Rom avevano bisogno di una voce che ne raccontasse la realtà al di là delle dicerie dei “non Rom”, delle critiche ingiuste e delle esaltazioni irreali, degli stereotipi dilaganti, dell’antiziganismo, «dello strabismo che rende “invisibili” i profondi e validi aspetti culturali e artistici della popolazione romaní» (Santino Spinelli- Le verità negate– Meltemi Linee, 2021).

Il termine gili in lingua romaní, ossia poesia, si traduce anche con “canto” perché la trasmissione orale delle tradizioni ai giovani avveniva sempre attraverso la musica come “canzone”.

Rasim Sejdić era un talento nel trasmettere la propria cultura ai figli e ai figli dei suoi figli e a tutta la loro generazione, perché possedeva non solo le armi del racconto orale, ma anche quelle della parola scritta, pertanto ha avuto il pregio di aprire una nuova era per la cultura dei Rom. Il futuro dei Rom è stato, infatti, arricchito dalla sua scrittura, mentre prima la cultura Rom viveva di una tradizione orale che era limitata solo all’interno delle comunità. Come afferma suo figlio Marko Aladin Sejdić: «La scrittura di Rasim ha testimoniato le vicende e diffuso la cultura e la lingua del popolo Rom. Ma che i Rom rimangano Rom! Conservando il ricordo, non dimenticando la tradizione, custodendo i valori tramandati dai padri, che la loro morte ha reso sacri!».

Il padre e la madre di Rasim Sejdić – Mehmed Sejdić e Džehva Sejdić (Hrustić) -, vivevano nella periferia della città di Vlasanica. Avevano 9 figli, 5 maschi e 4 femmine perché la prole per i Rom rappresenta una grande ricchezza e gli innumerevoli bambini che scorrazzano nelle loro case rappresentano la certezza di un futuro per la propria discendenza. E possedevano una fattoria con boschi, ruscelli, alberi da frutto, tantissima terra da coltivare e animali da accudire. Non erano nullatenenti, erano come noialtri possessori di terra, una terra ricca e piena dei frutti della natura, una terra attraversata da rigogliosi corsi d’acqua, una terra fertile e tanti animali che vi potevano pascolare. Una terra dove il concetto di tempo era scandito secondo i ritmi della natura e organizzato in relazione agli eventi della vita: nascite, feste, matrimoni, funerali, ecc., dove «il presente è sempre più importante del futuro incerto e di un passato ormai svanito»(Santino Spinelli).

Mehmed Sejdić lavorava anche nella costruzione delle strade nella città di Vlasanica. Nel tempo libero, con gli amici, beveva il liquore di prugne di sua produzione: la Šljivovica. È senza dubbio la rakija di frutta più popolare sia in Croazia, sia nei paesi dei Balcani. Forte, intensa e aromatica, per il tepore che infonde ad ogni sorso. Spesso servita come aperitivo, ma anche come digestivo alla fine di un pasto, la šljivovica fatta in casa si beve in buona compagnia. Gli alberi di prugne erano infatti parte integrante di tutti i giardini, per la frutta, le confetture e per questa deliziosa rakija. Nella distilleria “fai da te” avveniva la “cottura” della frutta fermentata, si trovavano grandi tini di legno (detti kace) che servivano a far fermentare le prugne, e la caldaia nella quale la frutta fermentata veniva portata a ebollizione.

Ma il padre di Rasim non si limitava a questo, cantava e suonava anche il tipico strumento bosniaco, la šargija. La musica e la danza sono un patrimonio che in Bosnia riflette la grande diversità presente all’interno di questo paese: la sargija è uno degli strumenti tradizionali che accompagna la danza in Bosnia.

Džehva Sejdić, invece, casalinga, era pure esperta nella medicina naturale, saggia conoscitrice della cura con le erbe, sapeva anche cucinare utilizzando condimenti ed erbe aromatiche per la salute della sua familje, per i suoi numerosi figli e per gli anziani della sua gente. Contrariamente a quanto si pensa dei Rom ritenuti ‘sporchi e cattivi’, nella loro cultura, «qualsiasi cosa venga ingerita all’interno del corpo deve essere pura e incontaminata. Grande attenzione, allora, va rivolta al cibo, ma anche alle posate, ai piatti e alle stoviglie (…). E bisogna stare attenti ai cibi proibiti durante il digiuno o il lutto, come carne, latte, uova, formaggi»(Santino Spinelli). E così la casalinga ha un sacco di incombenze e se è anche una drabarni (esperta guaritrice) ha altri compiti come togliere il malocchio facendo gocciolare dell’olio in un piatto colmo di acqua, ripetendo formule rituali e facendosi il segno della croce. E se è una guaritrice in genere è anche una esperta di divinazione, chiromante, è un “consigliere spirituale” per la comunità, perché la malattia arriva sia se non si osservano le leggi che se non si rispettano gli dèi. Insomma Džehva come molte donne rom aveva il dono di saper leggere il futuro.

Rasim crebbe in quest’ambiente rispettando tutte quelle regole rituali che definiscono i comportamenti sociali e spirituali nella tribù e col mondo esterno ed ebbe a sua volta 5 figli perché uno dei detti Rom afferma “Tanti figli, tanta ricchezza” (But chavé, but bravalipé). E mi piace citare questa splendida poesia intitolata:

Hanno calpestato il Violino Rom (Gazisarde Romengi Violina)

Hanno calpestato il Violino Rom,

cenere Rom è rimasta,

fuoco e fumo

salgono al cielo.

Hanno portato via i Rom,

i bambini divisi dalle madri,

le donne dagli uomini,

hanno portato via i Rom.

Jasenovac è pieno di Rom

legati al pilastro di cemento,

pesanti catene ai piedi e alle mani,

nel fango, in ginocchio.

Sono rimaste a Jasenovac le loro ossa,

denuncia di disumanità,

altre albe schiariscono il cielo

e il sole continua a scaldare i Rom.

Negli anni ‘60 Rasim a Sarajevo divenne giornalista e collaborò per tanti anni con il giornale Oslobodjenje con sede a Sarajevo e con la Radio Televisione di Sarajevo. Oslobođenje, in italiano significa “Liberazione”, è un quotidiano fondato il 30 agosto 1943 a Donja Trnova,  da alcuni partigiani impegnati nella lotta contro l’occupazione tedesca della Jugoslavia, durante la seconda guerra mondiale, come quotidiano anti nazista.

Radiotelevizija Bosne i Hercegovine, nota anche con l’acronimo BHRT, precedentemente conosciuta come PBSBiH (“Servizio pubblico radiotelevisivo della Bosnia ed Erzegovina”) è l’ente radiotelevisivo pubblico della Bosnia ed Erzegovina. Trasmette programmi e informazione da Sarajevo in lingua bosniaca.

L’attività di giornalista e scrittore di Rasim in questi due canali socio-politico-culturali molto importanti, era incentrata sulla conoscenza della sua gente: racconti e poesie narravano delle vicende e della vita quotidiana dei Rom.

Negli anni ‘70 Rasim partì per l’Italia per recarsi a Torino, spinto dal sogno che accarezzava molti bosniaci, un lavoro sicuro, ben pagato, la possibilità di comprare un’automobile: e la Fiat in quegli anni era l’Eldorado che poteva regalare tutto questo, pertanto si rinchiuse nella fabbrica della Fiat come operaio in una catena di montaggio. E chissà, forse per questo cambiamento drastico, rispetto alla sua cultura e alla quotidianità in connessione con la natura nella sua Sarajevo, si ammalò così presto, o forse questo era semplicemente il suo destino. Vissuto poco, ma molto intensamente.

All’epoca le sue poesie erano già molto conosciute in Bosnia: furono ampiamente diffuse attraverso giornali, riviste, radio e televisione. E così anche in Italia Rasim era diventato ormai una figura di poeta molto nota. Settimanalmente la RAI dedicò uno spazio ai suoi racconti e alle sue poesie sulla cultura Rom.

Quando chiedo a suo figlio Marko Aladin cosa ricorda di suo padre lui mi risponde: «Mi ricordo che – avevo circa 4-5 anni – a Sarajevo, quando il nonno di mio padre ha comprato un terreno grandissimo, per tutti i figli, affinché ogni figlio potesse costruire una casa, anche mio padre aveva costruito la sua casa, insieme ai suoi fratelli, anch’essi tutti artisti. La notte, per farmi dormire, lui mi recitava a memoria una delle sue poesie e di giorno, quando facevano delle belle giornate in quella verde montagna, si metteva sul prato, guardando il bosco e i piccoli villaggi intorno, prendeva la chitarra, suonava e cantava e poi scriveva delle frasi. Mi ricordo che era molto impegnato in città ed usciva sempre ben vestito per andare a frequentare i Non-Rom. Un anno aveva pure fatto la comparsa in un film sull’uccisione del Re d’Italia a Sarajevo, impersonando un soldato bosniaco. Era particolarmente attivo nella cultura dei teatri di Sarajevo, incessantemente in compagnia degli artisti. Mi ricordo che poi decise di partire per lavorare alla Fiat e che ci spedì in Jugoslavia la sua automobile e per me una bella bicicletta rossa: all’epoca avevo 7-8 anni circa. Lavorava per sei mesi e poi tornava per un mese con qualche giornalista che voleva conoscere il modo di vivere della nostra famiglia. Era sempre circondato da persone importanti del mondo giornalistico e artistico. Avevo solo 9-10 anni quando lui si ammalò e venne ricoverato in ospedale, prima in Italia, poi a Zagabria, per essere seguito nelle ultime fasi della sua vita, infine a Sarajevo, dove poco tempo dopo è deceduto. L’ultima cosa che ricordo: ero con mia nonna e mia madre davanti all’ospedale e lui stava per morire. Dopo siamo entrati nella sua stanza e lo abbiamo visto pallido e smagrito e lui mi disse prendendomi per mano: “Avvicinati figlio mio, fai il bravo e ascolta quello che ti dice tua madre”. Fu un momento molto triste».

In realtà Marko ha dedicato al suo celebre genitore, in quanto anch’egli famoso poeta, insieme alla sua ex-moglie Gordana Herold (scrittrice, laureata e poliglotta, che ha curato la seconda parte del libro incentrata sulla persecuzione dei Rom e dei Sinti durante il nazismo), il libro “Fuoco e vento” (E Jat the e Bahlav -2004), «un’opera che evidenzia la storia e la cultura romaní attraverso racconti, poesie e riflessioni; in quest’opera il Fuoco è il padre Rasim e lui si identifica con il Vento»(Santino Spinelli).

Mi è venuto, quindi, spontaneo chiedere a Marko, che da 25 anni abita a Colonia con i suoi 2 figli, svolgendo un’attività culturale con la sua University and Museum of Research and Studies of Romology, il motivo per cui lui abbia simbolicamente indicato suo padre come Fuoco e se stesso come Vento: «Sono elementi della natura che simboleggiano la mobilità dei Rom. Il Fuoco ci ricorda la famiglia, l’amore, la dignità, il rispetto, i valori, il gruppo di appartenenza, la felicità, la vita quotidiana, con le sue gioie e tristezze, vissuta tanto tempo fa, con i nostri padri, madri, parenti e amici, nella nostra antica comunità. Il Vento ci ricorda il cambiamento che si rinnova in ogni momento, con le nascite dei figli che portano speranza al nostro futuro, trasformando i momenti bui della nostra vita e del nostro passato».

E poi gli ho anche chiesto di inviarmi quella poesia dove parla di suo padre “Le Poesie mio padre ed io” tratta dalla raccolta “Io vengo da lontano, I.S.U. Università Cattolica, 2000, da cui ho estratto questi passi:

Giovane, ammalato, morto…

Io ero allora un bambino

e tutti i rom dicevano che mio padre era morto.

I miei occhi hanno lasciato cadere le lacrime.

La madre di mio padre mi dice:

andiamo alla tomba di tuo padre.

Alla tomba di mio padre siamo andati

mezza sigaretta abbiamo fumato*

e mezza sigaretta abbiamo lasciato sulla tomba.

Mia nonna a mio padre racconta

che io sono venuto alla sua tomba

e che noi tutti stiamo bene in salute e vivi.

Due lacrime sono scese dai miei occhi.

Dai gagé siamo andati

e abbiamo comperato la lapide di marmo,

ai gagé abbiamo detto che sulla lapide di marmo

mettano la sua immagine

e le sue poesie a caratteri d’oro scrivano

e con la pietra modellino un libro da mettere sulla tomba**.

(*i morti si onorano con il rito della libagione che si fa fumando o versando gocce di vino o di caffè;

** sovente gli zingari mettono sulla tomba riproduzioni di oggetti legati alla vita o all’attività del morto).

(Marko Aladin Sejdić)

Rasim ha pubblicato le sue poesie in Italia in lingua romanì-italiana in una raccolta intitolata “Rasim, poeta Zingaro“, Publi e Stampe – Milano, 1978.

Inoltre, ha collaborato con la rivista bimestrale di studi zingari Lachio Drom (buon viaggio) fondata nel 1965 da Mirella Karpati insieme a don Bruno Nicolini, pubblicata dal Centro Studi zingari dal 1965 fino al 1999 sotto la sua direzione. Rasim che divenne molto amico dei due fondatori, pubblicava vecchie storie rom in lingua romanì e in italiano. Il frutto di questa collaborazione è stato riversato in un libro intitolato «Lacio Drom».

Mentre per il libro: Rasim Sejdić, Eppure cantavano le loro anime, pubblicato presso I.S.U. Università Cattolica, Milano, Italia 2013, Rasim collaborò con Giulio Soravia, già docente di Glottologia e di Lingua e letteratura araba all’università di Bologna e studioso della cultura sinti, che nel 1969 iniziò a scrivere per «Lachio Drom». Insieme a Rasim elaborò la raccolta di testi, favole, proverbi, pubblicati poi sul libro.

Rasim aveva trasmesso al professore lezioni di antropologia pratica molto semplici, tra cui la volontà di rafforzare l’amicizia tra Rom e non-Rom. E gli raccontò una serie di favole e racconti bellissimi. Soravia voleva pubblicare quelle perle ricevute da Rasim e gli chiese il permesso, ma Rasim aveva la sua filosofia: una volta che aveva narrato le sue storie all’amico, erano diventate automaticamente sue, gliele aveva consegnate e lui poteva pubblicarle senza più chiedergli l’autorizzazione. Nel mondo di Rasim “il racconto ceduto a un altro si prestava a essere ri-narrato”, a individui che fossero degni di ascoltare la narrazione fatta con tutte le sue varianti possibili.

Questa scrittura avvenne attraverso un registratore perché secondo Rasim, se lui avesse scritto, si sarebbe perduto l’aspetto emotivo del racconto, la musica delle parole, il modo in cui venivano pronunciate, aveva preferito registrarlo «perché il registratore conservava l’intonazione, le parole, i suoni. La scrittura era una cosa muta per lui».

Rasim aveva il dono che hanno solo i poeti, come sottolinea Giovanna Salvioni (docente di Antropologia culturale nella Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Milano): “il suo animo era così forte e nello stesso tempo così assetato di bellezza e di bontà che riusciva a trasfigurare ogni umiliazione e ogni dolore perché le parole volano libere verso l’alto, leggere ed evocatrici come uccelli dalle grandi ali, come nuvole bianchissime”.

Mentre Giulio Soravia ci esorta: «Lasciamo vivere la sua poesia semplicemente, per non far vivere i nostri figli in un mondo di violenza, di slealtà, di orrore, di miseria, senza fantasia, senza speranza…».

Ringrazio Carlos Hadžović – mediatore culturale, figlio di Sevla Sejdić (mediatrice culturale, esperta di tradizioni Rom e sorella del celebre Rasim), ideatore della Asocazija Rasim, Associazione di promozione culturale romaní – che mi ha indirizzato a suo cugino Marko per poter avere notizie di prima mano su Rasim.

Marko Aladin Sejdić figlio di Rasim

«Chi non conosce la storia degli altri, non conosce la propria storia. La mia storia è la tua storia, la mia cultura è la tua cultura, la mia tradizione è la tua tradizione, la mia lingua è la tua lingua, la mia terra è la tua terra. Il percorso della nostra vita e del nostro futuro dipende da come viene educato il nostro corpo, la nostra mente, il nostro cuore, la nostra anima e il nostro spirito». Marko Aladin Sejdić

Teatro Roma
Elena Salvati

Ordinary Life

La disconnessione sociale dei tempi moderni “Se non puoi scegliere cosa fare, puoi ancora essere quello che sei?”. Questo è

Leggi Tutto »