Il mondo del teatro si trasforma in un museo derubato delle sue opere d’arte, che non ha più la possibilità di accogliere al suo interno spettatori e spettatrici, ovvero i suoi più naturali abitanti. Ne abbiamo parlato con Emilio Solfrizzi, Mariangela D’Abbraccio e con il direttore artistico Geppy Gleijeses, durante il primo anniversario della chiusura totale dei teatri italiani causa Covid e in occasione dell’iniziativa «“Luci” sul Teatro Quirino».
È ancora opportuno parlare di speranza e perché il Quirino ha deciso di celebrare catarticamente la data del 5 marzo? Lo abbiamo chiesto a Emilio Solfrizzi: «Esattamente un anno fa, il teatro Quirino è stato bloccato a causa del Covid ed è ancora chiuso per questa stessa ragione. Mi auguro che questa speranza si tramuti in qualcosa di ben più concreto, non solo per il Quirino, ma per tutto il mondo dello spettacolo dal vivo. Quella di oggi è stata una bellissima iniziativa voluta da Geppy Gleijeses, per dare spazio ad un teatro che diversamente non l’avrebbe, attraverso le voci del nostro patrimonio culturale. Le voci che state sentendo [n.d.r. ovvero attraverso tracce audio trasmesse sulle soglie del teatro, in cui riecheggiano pezzi di Vittorio Gassman, Eduardo De Filippo, Carmelo Bene, Turi Ferro, Totò, Mario Scaccia, Ettore Petrolini, Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Gigi Proietti, Michele Placido, Alessandro Haber, Geppy Gleijeses, Mariangela D’Abbraccio e dello stesso Emilio Solfrizzi] fanno parte della nostra cultura e, quindi, sono parte integrante della nostra possibilità di essere un popolo civile. Questo teatro è una specie di bomboniera, che custodisce un patrimonio di tutte e di tutti, ed è per questo che ognuno di noi dovrebbe avere la sensibilità per capire che non può rimanere chiuso in eterno. Non si può chiudere il teatro, non si può non dare voce al teatro».
Proprio a partire dal concetto di patrimonio culturale comune, invocato da Solfrizzi, sorge il dubbio che la situazione attuale, in cui versa il mondo teatrale, pregiudichi gravemente la possibilità delle giovani generazioni, dal punto di vista della formazione e dell’occupazione. C’è da notare come, nonostante venerdì 5 marzo su via delle Vergini, alle porte del teatro Quirino, si sia ritrovato un discreto numero di persone – per quanto possibile e sempre opportunamente distanziate – l’età media dei/lle partecipanti fosse piuttosto alta. Questo genere di manifestazioni non sembra coinvolgere, per ragioni diverse e complesse, le/i giovani.
Solfrizzi: «Non voglio sembrare aulico, ma diventare attore è quasi una missione. Intanto, mi sento di dire che questo è un momento che finirà e, quindi, non è eterno, stiamo solo aspettando il momento migliore per la riapertura. Certo, ci si può interrogare sul fatto che i luoghi di culto o le metropolitane siano aperti, a dispetto dei teatri e del perché quest’ultimi, con le dovute misure e precauzioni, non possano avere la loro chance di mantenere almeno un filo diretto con il proprio pubblico: questa è una speranza vera e concreta.
Mi hanno proposto di fare streaming per il teatro, ma anche se non amo questa parola non ne rifiuto l’eventualità. Mi piace l’idea che il teatro possa essere fruito anche da chi non può recarvisi fisicamente, ma questa soluzione non può che affiancare la fruizione dal vivo, esserne un compendio. Il teatro è voce, fiato, sudore e vicinanza, è qualcosa di insostituibile. Non è un caso che la semiotica [n.d.r. la branca della filosofia del linguaggio, che studia i segni, i simboli e le espressioni umane, ricostruendone i significati; esiste una specifica disciplina, poco conosciuta in Italia, detta “semiotica teatrale”, nonché un dibattito molto esteso sull’argomento e sulle opportunità di applicazione di tale materia. Per un approfondimento rimandiamo al testo introduttivo di A. Ubersfeld “Leggere lo spettacolo”] non si possa applicare al teatro, in quanto si tratta di un evento assolutamente irripetibile, tra spettatore e attore, tra platea e palco, che si dà in un momento. Mentre tutto il resto si modernizza, il rapporto tra spettatore e attore non è mai mutato, sono cambiati solo i luoghi, diventando più funzionali. Per noi la cosa più importante è continuare a far sognare i/le giovani, affinché non si rompa questo legame».
Con Mariangela D’Abbraccio abbiamo ripercorso una parte della storia recente del teatro Quirino, di cui è stata protagonista, dai ricordi più belli a quelli più drammatici.
«C’è da dire, prima di tutto, che il nostro è stato lo spettacolo che, un anno fa, fu fermato a seguito della chiusura nazionale dei teatri. Eravamo in scena con “Un tram che si chiama desiderio” e la sera del 4 marzo è arrivato l’annuncio della chiusura e devo ammettere che questo è un ricordo abbastanza forte. Devo molto a questo teatro, che ha messo in scena gran parte dei miei lavori, da “Napoli milionaria” a “La gatta sul tetto che scotta” fino a “La rosa tatuata” e a “Filumena Marturano”. È un teatro che mi ha vista in diversi spettacoli e a cui sono molto legata. Lo possiamo definire un “vero teatro”, in cui il pubblico ha sempre risposto positivamente, non abbandonandolo mai, persino nei momenti più difficili per la città. Anche quando i teatri non andavano bene, il Quirino ha sempre ricevuto un apprezzamento da parte del pubblico. È un teatro che non ti tradisce mai, anzi, ti accompagna sempre. La chiave, probabilmente, sta nella capacità di proporre delle stagioni complete e con un’ampia offerta».
Ma parliamo anche della situazione attuale e, in particolare, delle diverse manifestazioni, eventi e atti di protesta, susseguitisi a Roma e in giro per l’Italia o sui social, in favore della riapertura dei teatri. Qual è la chiave giusta per portare avanti il messaggio del teatro?
«Le manifestazioni, se ben organizzate e pensate con cognizione, sono tutte giuste – replica Mariangela D’Abbraccio – il problema è un altro. Adesso si sta parlando delle riaperture, ma queste non sono reali, il 27 marzo non succederà niente. Il settore non può ripartire così. Per questo chiedo sempre che sia fatto presente che, mentre i teatri sono stati aiutati, come anche le produzioni, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo sono stati abbandonati a loro stessi/e e non hanno avuto quell’accompagnamento che, invece, c’è stato in altri paesi europei. Lo scorso anno, non sapendo ancora come si sarebbe evoluta la situazione, in un’intervista ho istintivamente detto che non si sarebbe riaperto prima di due anni, ma ora temo che si andrà anche oltre tale data. In questa situazione sono necessari degli aiuti seri a sostegno della categoria, ma ciò non è stato fatto e questa è la questione più grave. Bisogna pensare a salvare quelle persone che, in questo momento, hanno problemi reali di sopravvivenza. Il teatro poi si farà, come si è sempre fatto. È giusto salvare i teatri, ma è anche giusto salvare chi ci lavora».
Come commentare, dunque, la dichiarazione a più riprese rivista e poi definitamente smentita del ministro Franceschini, per la riapertura dei teatri il 27 marzo?
«Non abbiamo un ministro che ci rappresenti. L’atto di noncuranza che si sta compiendo è criminale. Il settore teatrale è stato abbandonato, nonostante la politica sia, ovviamente, al corrente della situazione economicamente e socialmente drammatica che stiamo vivendo. Il nostro è il primo settore produttivo ad essersi fermato realmente e in maniera totale, inoltre, è grave l’approccio della RAI, che non ha aiutato il live.
Abbiamo bisogno di aiuti fissi, mensili e in tempo (c’è chi aspetta mesi prima di ricevere gli indennizzi). Si dovrebbe adottare il modello tedesco, dove i contributi sono inviati direttamente sui conti correnti degli/lle artisti/e. Mi auguro, ad ogni modo, che il 27 marzo i teatri aprano in maniera simbolica e che si vada verso un miglioramento. Bisogna ricordare, infatti, che il teatro è un luogo in cui i flussi di persone sono assolutamente controllabili, basti pensare agli abbonati, che sono conosciuti personalmente e che non solo prenotano sempre gli stessi posti, anche per anni, spesso in date simili, ma che sono, inoltre, tra gli spettatori più tracciati, mediante indirizzi, mail e numeri di telefono.
In conclusione, anche per la D’Abbraccio lo streaming «non può salvare una categoria, non è il futuro del teatro».
Dulcis in fundo, dopo qualche incertezza e un po’ di attesa, riusciamo a parlare anche con il direttore artistico Geppy Gleijeses, che ha passato questo pomeriggio tra amici e amiche, colleghi e colleghe, ma anche tra la «gente comune, che lo ha ringraziato, per aver fatto rivivere le grandi voci del teatro italiano».
Dall’uscio del teatro alle scale della chiesa di Santa Rita da Cascia alle Vergini, nell’omonima strada dove si ubica anche il Quirino, le persone si sono fermate a vedere cosa stesse accadendo. E c’è da chiedersi se davvero non esista una competizione spirituale tra chiesa e teatro, come spesso si è sentito invocare sui media nazionali. La risposta di Gleijeses è negativa, per il celebre direttore del Quirino a tutti e a tutte deve essere riconosciuto il «diritto fondamentale alla preghiera, naturalmente in sicurezza e senza assembramenti».
Il problema sembra essere un altro: «Se in chiesa l’incontro con gli altri non è obbligato, in teatro lo è e l’assembramento si crea. Come ha detto il grande epidemiologo di Harvard Lipsitch, in merito alle misure adottate in Italia, il punto è interrogarsi sul perché siano stati chiusi proprio quei luoghi come i teatri, i musei, i cinema e le biblioteche, dove notoriamente non c’è passaggio di “goccioline”» [n.d.r. anche dette dropplets, ovvero goccioline di secrezione delle vie aeree].
Alla domanda se questa sia una mossa politica, Gleijeses non usa mezzi termini: «È demagogia pura. Il nostro mondo viene ritenuto superfluo, ma in questo caso potrei rispondere come Oscar Wilde: “Toglietemi tutto ma non il superfluo”. Questa è la nostra vita, in primis la mia come direttore di teatro e artista, ma è di tutti/e, è la vita della gente. Questo teatro ha 6.000 abbonati/e e quando ci dicono di riaprire il 27 marzo si tratta di un’altra mossa, secondo me, assolutamente demagogica e impossibile, visto che il CTS, ovvero il Comitato Tecnico Scientifico, ci può obbligare anche cinque giorni prima a richiudere. Si può riaprire con incentivi alla ripartenza mirati, forti e non soltanto per i teatri, ma soprattutto per le imprese di produzione, che fino ad ora non hanno ricevuto nulla, sia per quanto riguarda quelle sovvenzionate dal FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo), che quelle non sovvenzionate. Ad esempio, dare una sovvenzione di duecento mila euro a fondo perduto ad alcune società, che magari hanno perso due milioni di euro di fatturato, è come buttare una goccia nel mare. Prendiamo il mio caso: ho fatto cinque allestimenti alla fine del 2019 con Andrej Končalovskij, Liliana Cavani, Pier Luigi Pizzi e Eugenio Barba, il più grande sperimentatore del mondo: come ammortizzare questi costi se non è possibile girare in tournée? In nessuno modo, e quindi sono costretto a rimetterci in tutto e per tutto».
Il carattere di discontinuità del settore produttivo teatrale rende ancora più complicato fornire delle soluzioni pratiche o, semplicemente, delle risposte chiare. E, nondimeno, Gleijeses sulla questione del conflitto tra establishment dei grandi teatri e lavoratori/lavoratrici dello spettacolo, nonché sulla distinzione tra teatri pubblici e privati, espone il suo punto di vista in maniera molto netta.
«Il teatro privato [ n.d.r. è questo il caso del Quirino] risponde al criterio dell’intrapresa privata». Ma è sulla questione degli aiuti, che la discussione si fa più accesa: «No, assolutamente, non abbiamo aiuti. Il Quirino, nonostante sia il primo teatro di Roma per numero di abbonati, nonché per tradizione – quest’anno compie centocinquant’anni – riceve dal Ministero 54mila euro l’anno, a fronte dei teatri stabili o nazionali, che percepiscono da uno fino a tre o quattro milioni di euro, oltre agli aiuti regionali, a quelli provenienti dagli enti locali e dai comuni.
C’è un problema enorme in questo senso, le strutture nazionali possono anche permettersi di riaprire per un numero esiguo di spettatori e spettatrici, ma nel nostro caso il 27 marzo – pur ringraziando il ministro per questa possibilità – dovremmo far entrare il pubblico con gli “scafandri” e in un teatro con novecento posti come il nostro, la capienza sarebbe ridotta a duecento persone. Con tutto l’amore che gli/le spettatori/trici possono avere per noi, chi verrà a teatro in piena terza ondata e con i contagi che crescono?
In Campania (zona rossa da lunedì 8 marzo), si trovano diversi soci dell’ATIP (Associazione Teatri Italiani Privati), con presidente Massimo Piparo e di cui sono il coordinatore generale per le imprese. Si tratta di un’associazione che comprende teatri privati di tutta Italia, da Padova a Brescia, fino a Catania, che rispondono delle perdite con il proprio denaro, allo stesso modo di Garinei con il Sistina, morto tra i debiti per tenere in piedi il suo teatro e come tanti altri che si sono messi in gioco in prima persona, rimettendoci salute e soldi».