Al teatro Quirino di Roma, fino al 14 novembre, è in scena Le leggi della gravità, atto unico tratto dall’omonimo romanzo di Jean Teulé. Gabriele Lavia, che ha curato l’adattamento e la regia, ne è sublime interprete accanto a Federica Di Martino e al giovane talentuoso Enrico Torzillo.
Molte le opere di Teulé ad essere state rappresentate al cinema o a teatro. È un autore molto particolare, il cui stile letterario è un mix di narrativa e scrittura visuale, con prevalenza di quest’ultima. L’incipit del romanzo potrebbe ben essere quello di una sceneggiatura, infatti: «Belle mani femminili chiudono una piccola valigia»; si dedica anche a descrizioni più tradizionali, ma sono sempre focalizzate sull’immagine: «La notte è dolce. Una brezza giunge dall’oceano e muove appena i capelli». Persino i flashback hanno qualcosa di cinematografico: nel passaggio del tempo non c’è sfumatura narrativa ma sequenza di immagini. È come se tra le pagine ce ne fossero altre, trasparenti, che segnano stacchi, dissolvenze …
Il dipanarsi della storia ricorda vagamente il film di Tornatore Una pura formalità: anche lì campeggia un orologio, sebbene privo di lancette, visto che siamo in una dimensione ultraterrena, anche lì c’è un poliziotto (Roman Polanski), un giovane attendente (Sergio Rubini) e un interrogato (Gerard Depardieu), anche lì si deve realizzare qualcosa che va oltre la storia.
Sì, la scrittura di Toulé è basata molto sulla resa scenica. E, in effetti, nel 2003, da Le leggi della gravità è stato tratto un film di Jean-Paul Lilienfeld con Sophie Marceau e Miou-Miou. La trasposizione teatrale di Gabriele Lavia, però, mi ha emozionata molto di più. Innanzi tutto viene ripristinato il binomio dialogico originale, quello tra un uomo e una donna; inoltre la realizzazione della storia, nella sua aristotelica unità di tempo e di luogo, ha qualcosa di potente: un dialogo che si fa monologo per entrambi i personaggi e dal quale entrambi i personaggi escono cambiati. Le rievocazioni degli eventi passati sono inizialmente gentili, aggraziate, sono voli, sono viaggi nel tempo, in cui l’uso del presente fa da motore. Poi arriva il ritmo incalzante delle pretese e delle offese di un uomo, le ferite emotive sulla pelle di una donna, e solamente un tuono, un’esplosione può azzittirle.
Come in ogni rappresentazione di Lavia la storia si intreccia ad un raffinato simbolismo scenico; in questo caso anche Toulé ci mette del suo, ma Lavia riesce meravigliosamente a parlare anche attraverso la scena, in ciò coadiuvato egregiamente da Alessandro Camera per le scene, da Andrea Viotti per i costumi e da Antonio Di Pofi per le musiche.
Vita e morte si fronteggiano costantemente; un dualismo freudiano cronometrico, quasi musicale: ora l’una, ora l’altra.
È vita l’immagine del giardino, dell’aiuola fiorita e del platano, ma diventa morte quando i fiori vengono recisi, rubati e quando dal platano pende il cadavere di un corvo accecato. Un corvo: l’animale totemico capace di penetrare nell’aldilà.
È vita il treno che passa, con i suoi uomini, le sue donne e le loro mete ignote, con la loro esistenza che fugge … «Dove andateeeee?»; ma è anche morte quando il suo rumore scandisce il racconto della violenza del passato in una sorta di atroce similitudine sinestetica: ta-tan-ta-tan, ta-tan-ta-tan, ta-tan-ta-tan.
È vita quella che con Theodor Reik possiamo chiamare coazione a confessare, a liberare la coscienza, ad accettare la buia prigionia in cambio di una nuova luce interiore, ma diventa morte quando cade la deprecatio, l’autoindulgenza e si vogliono ignorare le spinte motivazionali, le paure, i dolori che esistono dietro ogni gesto: «Lei ha suicidato suo marito e suo marito ha suicidato lei».
È vita il fazzoletto che il poliziotto porge alla donna piangente, perché la consolazione è sempre vita, ma smette di esserlo nel momento in cui viene estratto dallo stesso cassetto in cui è riposta la pistola, strumento di morte.
È vita la luce, quella gialla del lampione, che entra dalla finestra e crea quadri suggestivi nello stile di Edward Hopper; ma è anche morte quando appartiene a quella stanza e viene spenta sovente, perché il buio è buio, è amico, fa sparire le brutture dell’esistenza e rende sicure quelle due vite in caduta libera, gravate dal peso dell’anima. Quando cadiamo dentro noi stessi, nel nostro abisso, lo facciamo a 9,81 m/s2? «A volte mi perquisisco per capire se esisto veramente» afferma il personaggio interpretato da Lavia, mentre si trascina avanti e indietro, zoppicando, perché il terreno accidentato dell’esistenza non consente altro. Il messaggio nascosto dietro le parole di questo dramma è un qualcosa che va oltre Cartesio e oltre Berkley: la percezione di noi è sufficiente ad assicurarci la nostra esistenza? Forse viviamo tutti in Matrix e non abbiamo a disposizione la pillola blu, per evitare di vedere quanto sia profonda la tana del Bianconiglio. È tanto profonda che, a caderci dentro, l’accelerazione di gravità fa danni seri.
Anche l’orologio è vita. Scandisce il tempo della narrazione e dell’azione, il tempo dell’esistenza, e, nel complesso scenografico, diventa parte della vita esso stesso, un Sole o, forse, una Luna, che giganteggia su colline di cartone. Non sono colline, però, sono faldoni, sono mucchi di guai, di orrori, sono le brutture denunciate e in attesa di giustizia, una giustizia che, come la verità, non esiste. Ed ecco che un apparente paesaggio esteriore si fa interiore, disegna una normalità atroce e devastante. E, in questo senso, si rende morte.
È vita l’arte con i suoi quadri fatti di colla e sabbia colorata, possibilmente senza grinze, senza imperfezioni, ma quella sabbia è effimera e volerà nel vento, atterrerà nel mare. Polvere alla polvere.
Gabriele Lavia è il tormento interiore che si rende uomo e si offre generosamente al pubblico. È prodigioso nella composizione fisica e psicologica del personaggio e ho trovato particolarmente coinvolgente il modulo di preoccupazione e rassegnazione nel quale lo ha tenuto costantemente, anima nera e luminosa al contempo. Il suo è un inno alla vita gridato a pieni polmoni: la vita sua, quella da cui lo separano poche ore e che inizia a vivere nel momento in cui indossa il cappello anche nella stanza, come se fosse già fuori di lì; e la vita della donna che ha di fronte.
Non vado mai a vedere uno spettacolo senza il mio binocolo da teatro; lo uso anche quando sono in prima fila: adoro i particolari. Ebbene, quando Lavia calca la scena bisognerebbe dotare di binocolo tutti gli spettatori, perché è un delitto che vada persa anche solo un’espressione, una piega delle labbra, uno sguardo. La sua mimica è emozionante quanto la vocalità. Lo seguo da sempre ed ogni volta è Lavia, pur essendo altro da sé.
Bravissima anche Federica Di Martino, che cammina con intensa espressività sul ponte invisibile delle sensazioni e delle emozioni, avanti e indietro, dal pianto allo stupore, dallo stupore alla concitazione, dalla concitazione all’arrendevolezza, alla rassegnazione, al volo dentro se stessa, seguendo l’accelerazione di gravità. Lo schianto è inevitabile e lei lo esprime con grande maestria. Il suo linguaggio espressivo è vivido.
Un testa-a-testa sostenuto, vibrante, incalzante, quello di Lavia e della Di Martino. Hanno saputo dare l’idea della fragilità umana e della sua crudeltà.
Il dialogo aiuta molto: non è mai banale; e il carattere tragicomico di alcune battute fa sorridere e riflettere al contempo, coinvolge.
C’è anche una terza presenza, in scena. Non è facile inserirsi in una partita giocata con tanta precisione da due attori del genere. Enrico Torzillo ci riesce perfettamente. Al pari del rumore del treno, le sue entrate e le sue uscite scandiscono il tempo, portano una ventata di freschezza nell’aria plumbea del dramma. Il suo personaggio è lì a rendersi icona delle scelte non fatte, di ciò che il poliziotto non è mai stato, di ciò che la donna non vuole più essere; è icona di potenzialità, di libertà. E il brio interpretativo di Torzillo rende perfettamente l’idea. Abbasserà un po’ il proprio tono solo quando anche lui si accorgerà della vita che scorre fuori della finestra. «Dove andateeeee?» griderà anche lui ai passeggeri del treno, istituzionalizzandosi nel suo ruolo di poliziotto chiuso in quella triste stanza, che fatalmente lo allontanerà da sé.
La vita, a volte, è una strada fatta non già di scelte ma di non-scelte, fatta di ciò che non è stato. Il tempo, ci raccontano i fisici, è fluido e, forse, un giorno, si troverà il modo di viaggiare in esso e di rendere possibili le infinite alternative, ma la vita che conosciamo, al momento, è una freccia scoccata alla nascita e vivere è anche contare le delusioni, constatare i fallimenti, subire i crolli, come quello che, in scena, muta la quinta all’improvviso. È su questa linea che si adagia l’orizzonte di attesa dell’intera pièce.
Uno spettacolo da vedere e rivedere, come sempre quando è Lavia a regalarsi al pubblico.