In questa ressa di idee e opinioni che è diventato il contemporaneo si dimentica, a volte, come persino il pensiero critico debba pretendere da se stesso di ricercare, per quanto remoto, un senso. Ed è prima di tutto a causa di questa ricerca faticosa e, a volte, persino sgradevole che la lettura critica del mondo che l’arte è chiamata a fare nella sua immanenza – cioè nel suo essere evento che si dà nel qui e ora dell’azione – non può prescindere mai da un certo fare ottimistico che accompagna sempre il perseguimento di un fine.
Tuttavia, con un moto di onestà e generosità per le generazioni che si affacciano ora nel mondo è, credo, giunto il momento di ammettere che ci si è smarriti da tempo in questo processo di ricerca del senso a tal punto che ogni ottimismo viene visto come un atto d’ingenuità e, nondimeno, perché non dare credito a questo candore dell’anima?
È questa, mi pare, una delle chiavi di lettura che riporta alla nostra attenzione Mimosa Campironi in questa intervista, laddove l’attrice e musicista fa dell’ottimismo non tanto una presa di posizione – uno stare nell’ottimismo ad ogni costo –, ma un momento costitutivo del suo essere nel mondo e, per questo, del suo fare arte.
Tra teatro e musica: unione, separazione o semplice eclettismo?
Sento queste due dimensioni come non solo complementari ma unite. Ho iniziato a recitare nel periodo in cui studiavo al conservatorio, perché avevo dei problemi di panico e non riuscivo più a sostenere gli esami. Tanto che ho fondamentalmente smesso di suonare per diversi anni, dedicandomi principalmente – e, devo dire, con fortuna – alla recitazione. Poi, a un certo punto, quella paura, in parte dovuta a vicende personali, è scomparsa e ho cominciato a cercare di far convivere musica e teatro. Sono per questo due aspetti che fanno parte di me in maniera strutturale e non li sento, quindi, come separati. È, semmai, il mercato del lavoro a necessitare che queste due dimensioni artistiche siano distinte. A volte rispondo che è come avere due amanti ed essere innamorati di entrambi.
In ogni caso, posso dire di aver raggiunto un traguardo importante, perché in entrambi i campi mi sono creata un’identità forte e, quindi, i musicisti si aspettano da me sempre un qualcosa in più che non un semplice concerto; e, allo stesso tempo, le persone che mi hanno scelto per lavorare insieme in ambito teatrale, soprattutto negli ultimi anni, mi hanno cercato proprio in virtù delle mie competenze musicali.
Mi è capitato in passato di essere stata definita ‘imprenditrice culturale femminile’ e preferisco questo tipo di definizione – anche se magari non mi corrisponde ancora pienamente – a quella di ‘eclettismo’. E questo perché la definizione di imprenditrice è per me in linea con quelle che sono le idee e i progetti che ho in mente e che cerco poi di realizzare rispetto ai mezzi che sento più consoni, ogni talvolta che mi dedico a un nuovo lavoro, a seconda che siano più indirizzati verso la musica o verso il teatro.
Un bivio comunque esiste. In questo momento, ad esempio, mi porto dietro ancora gli strascichi di questi due anni di pandemia che – con mia grande sorpresa, lo ammetto – mi hanno portato tantissimo teatro. E quindi, una volta esauritasi questa fase, spero nel prossimo futuro di potermi concentrare di più sulla musica, perché vorrei portare nel live le nuove esperienze che ho acquisito in questi due anni.
Pregiudizi di genere: un falso problema o un labirinto di ostacoli senza vie di uscita?
Sono un’inguaribile ottimista e per questo penso sempre che il futuro sarà ogni volta migliore di quello che viviamo ora; perciò, penso e spero che questa situazione piano piano diminuisca sempre di più e noi come società siamo già la dimostrazione che questo cambiamento è possibile, anche se quella della parità di genere è e rimane una lotta continua. Personalmente, se dovessi analizzare il problema soltanto dal mio punto di vista direi che alla fine ciò che vale nella vita sono le idee e il talento, che tu sia uomo o donna o di qualsiasi altra scelta sessuale o genere: quello che conta non sono che il tuo talento e le tue capacità. Purtroppo, però non partiamo tutti dallo stesso punto. E su questo non c’è assolutamente dubbio.
Nella musica i pregiudizi di genere li ho vissuti in maniera palese, perché produrre un disco per una donna è un’impresa difficile, soprattutto quando sei agli inizi, perché sei sempre preda del fatto che devi necessariamente sottostare alle decisioni di un produttore uomo o adeguarti alle scelte musicali maschili. Nel teatro, invece, la situazione è diversa perché il dibattito generatosi con il ‘me too’ ha fatto sì che si sia creato per certi versi il problema opposto, portando quasi a una sorta di pregiudizio al rovescio. In alcuni ambiti questo è però anche un aspetto positivo, perché tutela e protegge.
C’è poi oggi un grande dibattito a proposito del fatto che definire la scelta sessuale o il genere sia diventato troppo difficile, anche solo dal punto di vista linguistico. E mi rendo conto che, inizialmente, si possa andare incontro a qualche difficoltà nell’accettare quest’idea ma, a dirla tutta, mi pare che si tratti più che altro di definire la realtà nel modo più accurato possibile. Nel mondo, ad esempio, sono state coniate molte parole che in italiano rimangono intraducibili – penso, ad esempio, ai diversi termini con cui in finlandese ci si riferisce alla neve – e stessa cosa per la sessualità e il genere: perché dovremmo limitare l’uso delle parole rispetto alla possibilità di descrivere la realtà, invece, in maniera più accurata e precisa? Esiste d’altra parte anche il rischio che questo stato di cose induca alcune persone a diventare schiave di quelle definizioni, ma questo è un altro conto.
In che modo cantautorato e drammaturgia convivono e si influenzano in te in quanto dimensioni autoriali?
Inizialmente, la musica è stata per me il modo più semplice per potermi esprimere, grazie al fatto che parola e scelta armonica comunicano sempre in maniera molto diretta. Rispetto alla drammaturgia la musica è un linguaggio più universale – per me è il massimo anche in senso creativo – mentre l’uso della parola drammaturgica mi affascina per un’altra ragione, legata al concetto di verità, ovvero il fatto che ogni persona o personaggio filtra la verità in relazione al reale finendo spesso per fare di quest’ultimo qualcosa di ogni volta differente, a seconda della percezione del singolo e della sua storia, del suo grado di istruzione o dell’ambiente in cui è nato. Questo diverso approccio del singolo fa sì che esistano delle differenze nette anche nel modo di esprimersi. Ci sono persone, ad esempio, che hanno una percezione della realtà, come nel mio caso, basata maggiormente sull’ascolto, quindi i verbi che userà di più sono legati al ‘sentire’; mentre esistono persone che basano la loro percezione sulla visione (è questo il caso del personaggio di Ofelia che ho interpretato nell’Amleto per la regia di Giorgio Barberio Corsetti). Questo aspetto non soltanto mi interessa molto, ma è una dimensione che ho cercato di approfondire nella redazione dello spettacolo Family Game.
Una riflessione (a freddo) sul VR dopo Family Game. Cosa rimane una volta superato lo spettro pandemico?
Durante la pandemia odiavo tutto quello che riguardava la performance o gli spettacoli online, per questo – da super nerd quale sono – ho pensato che la realtà virtuale potesse riportarci a una dimensione prettamente teatrale, perché ha dei meccanismi al suo interno, sia nella realizzazione che nella fruizione, molto simili. Il live per me non è sostituibile con il virtuale, ma desideravo dimostralo praticamente anziché semplicemente assumerlo come un fatto assodato. Per fare questo nello spettacolo Family Game ho fatto sì che i due linguaggi – quello della realtà concreta e della realtà virtuale – convivessero. Nel momento in cui il pubblico, alla fine, toglie il visore prova una sensazione come di invasione nell’avere l’attore davanti sé tanto che la presenza diventa un fatto, non è più possibile darla per scontata; e lo stesso Alessandro Averone che ne è protagonista assoluto si trova a vivere d’attore la sua presenza sulla scena in maniera differente. Non mi dispiace, quindi, l’idea di usare questa tecnologia, però è importante che ciò avvenga sempre in senso drammaturgico e non semplicemente come un’esperienza ‘immersiva’ e solipsistica.
Il rapporto tra realtà e finzione in che modo incide nell’atto creativo per te?
Le ragioni per cui ho attraversato più fasi, partendo prima dalla musica fino alla recitazione, sono parte integrante della mia crescita psicologica, che ha fatto sì che io abbia avuto prima bisogno di esprimermi in un modo e poi in un altro. La relazione tra musica e teatro e quella tra realtà e finzione sono per me cicliche, è un atto trasformativo e quello che mi accade e che potrei vivere in maniera solipsistica – eventi negativi compresi – cerco, invece, di trasformarlo affinché non ne debba usufruire soltanto io, in modo tale che questo materiale possa diventare condivisibile anche per gli altri. Non pretendo che le mie esperienze siano universali – assolutamente no – però penso che, invece, il ‘seme’ alla base sia universale per tutti.