L’ANNO CHE A ROMA FU DUE VOLTE NATALE: la recensione

ROBERTO VENTURINI fa rivivere un’epoca eroica per il litorale romano, tra goliardia e boom economico, per arrivare oggi all’emarginazione della periferia.

Il titolo è di quelli che non si dimentica facilmente, intrigante, ma vi assicuro che la lettura di questo libro lo è ancora di più, “L’anno che a Roma fu due volte Natale” di Roberto Venturini.

Nulla è scontato: non lo stile, non il linguaggio, non la storia, non i protagonisti.

La forma è subito cinematografica, le descrizioni sono precise e tratteggiano case, panorami e personaggi in modo attento e dettagliato.

Litorale romano, zona sud, Villaggio Tognazzi, vicino a Torvaianica, villino sulla spiaggia, la protagonista Alfreda, piegata dalla vita e dagli psicofarmaci, obesa e accumulatrice seriale, vive in una casa trasformata in una discarica, dove cerca invano di imprigionare un passato fatto di eventi, di amore, di famiglia, di vita.

La scomparsa del marito durante una pesca notturna la lascia esposta alle intemperie della vita, indifesa e ripiegata sul passato, insieme a un figlio attonito, con qualche problema di droghe, che non riesce a farla uscire dal suo mondo ormai fatto più di visioni che di realtà.

Tutto intorno personaggi improbabili che sono quanto di più simile ad una famiglia si possa immaginare, e che aiutano i due protagonisti a svuotare la casa prima dell’arrivo dell’ufficio d’igiene e poi partono per una rocambolesca avventura che li porta a trafugare la salma di Raimondo Vianello, tumulata al Cimitero Monumentale del Verano di Roma, per unirla a quella di Sandra Mondaini sepolta invece a Lambrate. 

È la stessa Sandra a chiederlo ad Alfreda sedendosi sulla poltroncina vicino al letto, mentre mangia un piatto di polenta.

C’è tanto cinema in questo libro, non solo per l’ambientazione e per i personaggi citati, ma perché richiama alla mente una certa romanità dei protagonisti, una romanità anni ’60 nelle descrizioni, nelle pubblicità, e soprattutto nel racconto di quel tratto del litorale romano dove la media borghesia scopriva i week end e le vacanze, piene di sogni e di bambini, in un’Italia che correva, dove tutto sembrava possibile, anche che Sandra e Raimondo si fermassero a casa di Alfreda per uno spaghetto con le vongole.

Tutto era realizzabile in quegli anni, i sogni sembravano a portata di mano e il Villaggio Tognazzi, con il torneo di tennis dello Scolapasta d’Oro, diventava all’improvviso il centro di un’Italia che voleva solo credere ai suoi sogni.

“L’anno che a Roma fu due volte Natale” è un libro malinconico, ironico, pulp, molto nostalgico e molto romano, nella lingua, nelle atmosfere e nei personaggi.

Si uniscono i ricordi di un’Italia speranzosa a quelli più attuali di un sottobosco di criminalità e di disagio da periferia.

Ad un certo punto il libro accelera, è impossibile staccarsi dalla storia, si è trascinati dal giallo ma anche dai ricordi.

C’è l’avventura della riesumazione della salma al Verano, ma poi improvvisamente la memoria ci riporta quasi fisicamente a certi pomeriggi estivi:

“Vuoi il Lemonissimo dell’Algida e tua madre dice il Lemonissimo non è un gelato, prenditi il Cucciolone che è sostanzioso” e ancora “i surrogati dei ghiaccioli Motta che non sono ghiaccioli cioè sono mediocri non sono come il Lemonissimo”.

Roberto Venturini possiede il dono di quel tipo di linguaggio che disegna, il dono della storia che avvince, il dono delle pennellate che creano scene ricche di dettagli.

Conosce quel mondo in profondità, grazie anche ai racconti di Ricky e Gianmarco Tognazzi, e passa lieve sugli anni andati, sui disagi, sull’emarginazione, sui difetti dei romani e sulla loro strafottenza, sul disincanto pronto a tramutarsi in aiuto e condivisione.

Ed è per questo che con altrettanta leggerezza ti entrano dentro le parole, e le immagini, e lì rimangono, lasciandoti un po’ immalinconito, un po’ divertito, perso ancora dietro a quel mondo, ad Alfreda, a suo figlio Marco, alla loro strana famiglia allargata, e il sapore di quegli anni e di quelle estati lo senti a lungo come il sapore di un ghiacciolo, di una spaghettata improvvisata o la scena finale di uno sketch di Sandra e Raimondo come un mantra:  “Che noia, che barba, che noia”.

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Elena Salvati

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