L’anatomia della Triet sul linguaggio della verità

Sotto processo la caduta di una società ossessionata dai luoghi comuni

Davvero un bel film, intrigante e intelligente, che mette sotto processo la mentalità di una società corrotta dal conformismo. Un thriller giudiziale accattivante e arguto che giustamente ha vinto la Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes. I fatti: Sandra, scrittrice, insieme con il marito Samuel, scrittore e insegnante, e il figlio undicenne Daniel, da sette anni ipovedente (cioè, non completamente cieco) a causa di un incidente, vive in una isolata baita di montagna non lontano da Grenoble. Daniel, rientrando da una passeggiata col cane, scopre il cadavere del padre disteso in terra davanti alla porta d’ingresso. Le apparenze indicano chiaramente che sia caduto dall’alto: sì, ma come e perché? Tre sono le ipotesi: incidente, suicidio, omicidio. Al momento del ritrovamento in casa c’era solo Sandra, che – come asserisce ella stessa – dormiva e non ha sentito alcun rumore. Le tracce individuate sulla neve sono evidenti, ma nascondono la verità. Ovvio che Sandra è l’unica sospettata: comincia, quindi, un processo, attraverso il quale l’autrice del film, Justine Triet (che ha scritto la sceneggiatura con Arthur Harari), seziona da varie angolazioni l’intimità della vita della coppia. In tribunale l’accusa (condotta da un magistrale Antoine Reinartz, insopportabile come la spina di un cactus conficcata nella pianta del piede) esplora ogni particolare, spoglia davanti alla corte i caratteri di marito e moglie, vivisezionando tutte le intromissioni esterne, scandaglia il passato, ipotizza un futuro, coinvolge attivamente il ragazzo (unico testimone delle vicende domestiche). Entrambi sono scrittori: allora si studiano i libri che hanno pubblicato per cercare di rintracciare un indizio che conduca alla verità che, invece, pare, se ne sta sempre in disparte a osservare un ossessivo procedimento giudiziario, dal suo punto di vista, ridicolo. Al termine, infatti, ci sarà una sentenza, ma i fatti resteranno senza conclusione.

L’occhio della verità è quello della regista che non vuole «mettere a fuoco – come è stato scritto – l’inferno della coppia» e neanche giudicare i metodi cavillosi, crudeli e calcolatori dell’iter processuale, ma in Anatomia di una caduta si affrontano con coraggio e con distacco (quasi obbiettivo, che vuol dire non essere spinti da interessi personali) molti di quei temi di cui la nostra società si ciba ormai quotidianamente per garantirsi il simulacro dell’irreprensibilità, del rigore, dell’ipocrisia istituzionalizzata.

Il personaggio di Sandra, una bravissima Sandra Hüller, durante la vita trascorsa con il marito, naturalmente – come chiunque – matura un percorso caratteriale e intellettuale che, dopo dodici o tredici anni di convivenza, non la fa più essere quella d’allora, ma è cambiata, quasi non è più la stessa; e i mutamenti portano litigi, accomodamenti, nuove possibilità di evoluzione, novità che la coppia affronta ogni giorno. Ed ecco che ci rivela un’attrazione sessuale anche per le donne, mentre perde interesse nei rapporti fisici con il marito. Non dormono più nello stesso letto, però parlano e hanno scoperto altri modi per mantenere viva la loro unione. All’occhio dell’accusa, però, i tradimenti lesbici di Sandra potrebbero essere un indizio, e ci si appiglia a questo particolare come ad altri. Il figlio, l’ottimo Milo Machado Graner, è menomato della vista, ma la madre non lo ha mai voluto far classificare ufficialmente come portatore d’handicap affinché lui non si senta invalidato: anche questa, che potrebbe essere una accorta precauzione, diventa per l’imputata materia d’indagine. La registrazione audio di una accesa lite tra marito e moglie, terminata con rumori identificabili come percosse (ma nulla di esplicativo), subito fa pensare a un comportamento violento di lui o di lei.

Sono questi i punti che la Triet cerca di mettere sotto la lente d’ingrandimento. La sua abilità, non priva di una certa ironia, è quella di processare una donna e non un uomo, così da ribaltare la solita situazione per stigmatizzare finalmente quei luoghi comuni di cui non riusciamo più a liberarci. Anche in questi giorni, come nel passato più recente, abbiamo visto più di un film in cui s’è cercato di dar risalto alla figura femminile, e tanto ci si è dedicati all’omosessualità, all’immigrazione, all’ambiente, alla diversità, alla violenza, al razzismo: tutti argomenti giusti e rispettabili, ma che rischiano di sovraccaricare le responsabilità delle nuove generazioni. La Triet, mettendo sul banco degli imputati una moglie che ha tradito, una madre anaffettiva, una donna spregiudicata e violenta, accusata dell’omicidio del marito, può mostrare le cause delle violenze familiari in senso opposto a quelle imposte dalla consuetudine sociale.

Così, nella scena «a sorpresa» in cui si raccolgono le cause delle incomprensioni di coppia, è lui, l’uomo, a sentirsi umiliato, usato, condizionato, psicologicamente prostrato di fronte alla donna. Ingenuamente, o forse no, un testimone d’eccellenza lo fa notare in tribunale: qui dentro, per indagare sui fatti, si cercano le cause, ma sono le cause che andrebbero processate. «Ed ecco, signori, come parla la verità.»

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Anatomie d’une chute, un film di Justine Triet (Francia, 2023); con Sandra Hüller (Sandra), Swann Arlaud (Vincent), Milo Machado Graner (Daniel), Antoine Reinartz (l’avvocato), Samuel Theis (Samuel), Jehnny Beth (Marge), Saadia Bentaïeb (Nour), Camille Rutherford (Zoé), Anne Rotger (presidente della Corte), Sophie Fillières (Monica). Sceneggiatura, Arthur Harari, Justine Triet. Regia, Justine Triet. Auditorium, Teatro Studio G. Borgna, 22 ottobre

Foto di copertina: Sandra Hüller e Samuel Theis