L’AMORE DEL CUORE: L’ATTESA CHE SPEZZA IL LINGUAGGIO

Attorno al grande tavolo una famiglia consuma un’attesa, il suo tempo sembra dilatarsi dall’interno, procedere per poi bloccarsi e di nuovo avvenire fino a procrastinare il suo fine più e più volte.

Si riempie la platea del Teatro Vascello al sopraggiungere di “L’amore del cuore” di Caryl Churchill sulla regia di Lisa Ferlazzo Natoli dove l’allestimento essenziale di Alessandro Ferroni, la luce volutamente tenue di Omar Scala, contribuiscono alla creazione di un’atmosfera scenica solo in parte riconducibile all’idea familiare di “dramma domestico”.

Due coniugi e la loro tratteggiata incomunicabilità, una zia trasognata, un figlio reietto dal passo barcollante e sempre ubriaco: solo l’indeterminato aspettare li tiene ancorati a quello spazio ristretto dove la distanza tra l’arrivo di una figlia lontana e il nebuloso presente ospita il recupero di ricordi sopiti, all’esternazione di rancori circolanti, all’emergere di un non detto forse neanche del tutto reale.

Strutturato su una ripetizione le cui componenti potenziali vengono reiterate, estremizzate, deformate fino al limite dell’immaginazione, lo spettacolo si origina dall’intenzione registica di destrutturare il linguaggio, di ridurlo alle sue componenti midollari fino a ribaltarne del tutto il messaggio: come personaggi di una messa in scena in corso di elaborazione gli attori Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Francesco Villano e Angelica Azzellini appaiono come interpreti di interpreti, a loro volta diretti da un regista fittizio posto sulla sinistra del proscenio.

Un elemento di ambiguità persistente aleggia nell’aria al punto da ricevere l’impressione che l’azione non sia altro che una serie di possibilità irrealizzate di un’esistenza che – situata in un limbo – elegge ogni segmento del discorso, ogni dialogo, ogni gesto come mero spettro di ciò che di fatto sarebbe potuto accadere.

Alla stregua di un “En attendant Godot”(1952) dove già il tempo dell’attendere si configurava secondo modalità a sé stanti e non solo come funzionale alla sua realizzazione, l’opera di Churchil la descrive come tempo svincolato dal suo finale, determinante perché in grado di ospitare molteplici stratificazioni della realtà possibile.

Un’interpretazione tagliente dove la mimica dei volti, l’intersecarsi dei movimenti sul palcoscenico, la continua variazione di timbro contribuisce a creare un’orchestra tanto organica quanto capace di restituire la tensione di un’atmosfera linguisticamente, corporalmente, testualmente evocata.