L’ammutinato Marlon. Luci e ombre di un divo sempre sopra le righe.

Ha rappresentato l’anticonformismo e la ribellione nel cinema, oltre al genio della recitazione.

Nel centenario dalla nascita il 3 aprile del 1924 e a 20 anni dalla morte, il mondo del cinema e non solo ricorda Marlon Brando, proprio mentre viene ristampata la biografia che lui stesso scrisse con Robert Lindsey dal titolo Le canzoni che mi insegnava mia madre.

Definito anche “il divo più eretico e sexy di tutti i tempi ma anche un “Brando che si chiama desiderio”, come titolava Natalia Aspesi in un suo editoriale giocando sul titolo di un celebre film.

Un tram che si chiama desiderio

A Hollywood lo definivano negli anni cinquanta “una fabbrica di ormoni ambulanti”, forse anche per la sua storia con Marilyn Monroe quando abitava allora giovanissimo a New York in un appartamentino nei pressi della Carnagie Hall a pochi isolati dall’Actors studio di Elia Kazan e Lee Strasberg, improntato sugli insegnamenti del metodo Stanislavskij e da entrambi frequentato.

Protagonista di film popolarissimi di un cinema che è diventato storia come Fronte del porto diretto proprio da Kazan, dove nel ruolo di un pugile fallito membro del sindacato portuale, trova la forza di ribellarsi al sistema invischiato in una serie di delitti che vengono compiuti nella zona e che gli valse nel 1950 il primo Oscar.  Il film si aggiudicò anche la statuetta per la migliore attrice non protagonista con Eva Marie Saint e quello per la regia, ma soprattutto consacrò Brando nel firmamento dei grandi di Hollywood e la pellicola venne inserita nel 1989 fra i capolavori di Hollywood conservati nel National Film Registry presso la biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.   Fu ancora Kazan l’anno dopo che lo volle protagonista al fianco di Vivien Leigh in Un tram che si chiama desiderio” di Tennesse Williams che aveva già interpretato con successo in teatro nel ruolo drammatico di Blanche Dubois, suscitando non poche preoccupazioni da parte del marito Lawrence Oliver che temeva il fascino del bel Marlon.

Il film premiato anche alla Mostra del cinema di Venezia, ambientato nel negli anni ’50 in sud America dove si scontrano passioni e ossessioni fra il vecchio sud che ha il volto di Blanche e il modernismo brutale di Stanley,  ruolo che fece conquistare a Vivien Leigh dopo Via col vento il secondo Oscar, cosa che accadde nel 1973 anche a Marlon Brando per Il Padrino di Coppola e che lo stesso Brando impegnato nella lotta per i diritti degli  indiani d’America non ritirò,  mandando al suo posto Sacheen Littlefeather , attivista di origini Apache che su fischiata sonoramente dal pubblico dell’Academy Hall.  La motivazione fu il pessimo trattamento dei nativi americani da parte di Hollywood e dell’intera industria cinematografica. A cinquant’anni di distanza si è corso ai ripari con le scuse formali per quell’increscioso episodio.

Fra i tanti film interpretati da Marlon Brando, un posto d’onore soprattutto per i problemi legati alla censura lo merita Ultimo tango a Parigi diretto da Bernardo Bertolucci, girato a Parigi nel 1973. La travolgente passione in un vecchio appartamento sfitto tra due occasionali affittuari: un americano 45 enne trapiantato a Parigi dopo il suicidio della moglie e una giovane ventenne interpretata da Maria Schneider, che valse a Brando oltre alle violente polemiche per alcune scene che fecero scalpore, ancora una nomination all’Oscar.

Nel 1979 dopo un lungo periodo di assenza dallo schermo, notevolmente ingrassato, Francis Ford Coppola riuscì a scritturarlo per Apocalypse now nel ruolo del laido colonnello Kurz, uno dei personaggi più potenti di sempre grazie al tocco d’autore di Brando, un tempo soldato modello durante la guerra in Vietnam, convertitosi successivamente al nemico. Il film ricevette otto nomination e due Oscar, ma la candidatura come attore non protagonista andò a Robert DuvallApocalypse Now vinse anche la Palma d’oro al Festival del cinema di Cannes.

Marlon Brando è stato e resta nella memoria collettiva come il simbolo di un’ambigua sensualità dove in lui tutto era esagerato, «portatore sano di un fascino magnetico per nulla datato, mai scalfito da una maturità segnata anche dall’inevitabile declino fisico del tempo», come scrisse Claudia Morgoglione. Un’icona che a 20 anni dalla scomparsa torna a far parlare di sè grazie alla sua biografia che da qualche giorno è tornata in libreria grazie a La nave di Teseo, dove lo stesso Marlon “il dannato” racconta anche i dettagli della sua storia d’amore con Marilyn Monroe fino alla notte del suo (presunto) suicidio nel momento in cui l’attrice viveva una relazione nascosta con i due fratelli Kennedy, John e Bob.

La biografia descrive un dietro le quinte che svela anche il lato umano del mito: dal giovane nato nel Nebraska e cresciuto a Libertyville nell’Illinois segnato dal legame con una madre alcolista, attrice dilettante fino all’Actors Studio, il successo, i numerosi film in verità non tutti da antologia, alle varie storie dentro e fuori dal set, all’amicizia con il re degli intellettuali trasgressivi come lo scrittore Truman Capote. Dalla sua filmografia non possiamo dimenticare Gli ammutinati del Bounty, sul set del quale scoccò la scintilla con la giovane polinesiana Tarita Teriipia, alla sua prima e unica esperienza cinematografica che sposò nel 1962 e con la quale visse fino alla sua morte e poi  Il selvaggio e Giulio Cesare. Interpretazioni in cui ha lasciato un’impronta indelebile anche sugli attori delle nuove generazioni di Hollywood come per esempio James Dean, Paul Newman, Al Pacino, Robert De Niro, Dustin Hoffman e Jack Nicholson. E come scrisse René Jordan uno dei suoi biografi: “Il suo stile recitativo unico, frutto di una applicazione rigorosa del metodo Stanislavskij  era  caratterizzato da un forte realismo e fu rapito e mai digerito da innumerevoli imitatori“.

In questa occasione la Cineteca di Bologna gli ha dedicato una rassegna e il prossimo Torino Film Festival a novembre il manifesto ufficiale, ennesima testimonianza a cui si aggiunge un documentario dal titolo Il paradiso di Marlon Brando.

“Predatore e dissipatore di talento e bellezza”, titolava parlando della sua biografia Natalia Aspesi in un suo editoriale su Repubblica di qualche giorno fa, ricordando la star che non ha lasciato eredi a Tahiti e dove si rifugiò per amore.   Nel 1990 Christian, il suo primogenito avuto dalla moglie Anna Kashfi, uccise con un colpo di pistola il compagno della sorellastra Cheyenne, nella villa del padre a Beverly Hills. E la stessa Cheyenne si suicidò qualche anno dopo a causa dei problemi di salute mentale in cui era precipitata, sia per le molestie ricevute dal padre, sia per la perdita della custodia del figlio Tuki che venne poi affidato alla madre Tarita, terza compagna di Brando. Una situazione famigliare disfunzionale che strideva con il suo impegno civile nei confronti dei nativi d’America, delle minoranze etniche e con la sua immensa sensibilità verso i temi ambientali dell’isola polinesiana che lo aveva adottato.

Ultimo tango a Parigi

Nel suo libro scrive: «Con la notorietà vieni amato o magari odiato per ragioni che non hanno nulla di reale ma dal momento in cui cominci a vivere come uno zombie ti seguirà  per sempre. É un’arma a doppio taglio: per ogni aspetto positivo ce n’è uno negativo. La fama tutto sommato è stata anche la rovina della mia vita, una volta diventato famoso non mi è stato più possibile essere di nuovo il Brando di Libertyville nell’IllinoisHo conosciuto e incontrato Marilyn Monroe a una festa a New York e poco dopo passammo la notte insieme. L’ultima sera della sua vita mi telefonò. Sono bravo a capire la gente e dico che in lei non c’erano indizi di un suicidio».