Turbini d’amore: l’umano è poesia
Lo spettacolo che Guido Lomoro ha costruito, direi cucito – con amore – sulla pelle dei giovani neodiplomati dell’Accademia Bracco è un avvincente ingenuo e caldo poema danza, un teatro delle passioni e della sragione, che pure da un aldilà si illude di ragionare sul possibile.
Il regista rielabora un testo di dieci anni fa, di Giuseppe Manfridi – Shakespeare Family, riattivandone il meccanismo in modo tragico dinamico. L’idea del testo originario era una rivisitazione ironica (post mortem), sotto forma di intervista nell’aldilà, delle vicende di vari personaggi shakespiriani, con pirandelliana analisi dei possibili.
Tutto questo rimane in I figli del poeta (Giulietta, Romeo e gli altri), ma circoscrivendo solo al Romeo e Giulietta, e spostando l’ottica dalla geometria ironica dell’intervista al tragico del confronto e rivissuto agito tra i protagonisti (tutti post mortem).
E non si tratta solo di farsi domande sulle possibili alternative all’accaduto, cercando il senso in quel non luogo e non tempo della morte, che morte non è tuttavia – dantescamente – né della memoria né del sentimento. Si tratta anche di un fuoco di fila di ulteriori agnizioni tragiche, come potrebbe essere quella che porta Edipo ad accecarsi, nella tragedia sofoclea.
Ogni personaggio si sente infatti portatore di una colpa, di un qualcosa che avrebbe potuto non fare, e che avrebbe evitato la tragedia della morte dei due amanti.
Mercuzio, che ha ucciso Tebaldo, e fatto conoscere Giulietta a Romeo. E che non seppe tenere a freno la propria focosità. Il frate che invece di suggerire la fuga, elaborò il contorto meccanismo della finta morte. Baldassarre, il servo che credendo alla finta morte di Giulietta, la comunicò a Romeo. Giulietta, che invece di opporsi apertamente ai genitori, o fuggire, sottostette al sotterfugio.
Ma oltre al tormento delle colpe, all’interrogarsi sul possibile, v’è appunto l’aspetto tragico delle agnizioni. Non tutti i personaggi sanno tutta la storia, essendo morti prima.
Mercuzio non sa cosa accadde dopo la sua morte, dell’amore di Romeo, e delle conseguenze della morte di Tebaldo.
Romeo non sa che Giulietta non era morta.
Giulietta non sapeva dell’infatuazione di Romeo per Rosalina, e del ruolo di Mercuzio nel portarlo alla festa.
Si diceva tuttavia dell’ingenuità, della sragione, del poema danza.
Sì perché, in fedeltà all’originale shakespiriano, si rimane nel ‘teen-drama’, nel turbine di una romantica enfasi del sentimento e del sogno. Con in più una specie di fraternità tragica tra tutti i membri del vissuto.
Così Romeo e Giulietta a più riprese smentiscono un possibile diverso, e respingono la colpa all’insegna di un desiderio al di là della ragione (volevo desiderare, volevo essere normale). E nello stesso tempo, ad ogni proposizione di colpa da parte di uno dei protagonisti, seguono danze di solidarietà, con gli altri che lo avvolgono, carezzano, risucchiano in vortici. Verrebbe da dire, con Dumas, tutti per uno, uno per tutti.
I protagonisti quindi sì, si contraggono anche in convulsioni, sbattimenti al muro, colpi di frusta all’anima, contorsioni epilettiche, ma sempre riemergono più forti che pria, fiammeggianti e sfolgoranti.
E quindi ?
Non solo l’amore trionfa sulla ragione, qualsiasi siano le conseguenze.
Non solo si accetta il risvolto tragico del già dato.
Con un surplus di romanticismo, forse un po’ retorico, si trova il senso del tutto nel suo eternarsi nelle parole della poesia, e nell’essere modello di umanità – in quanto testo teatrale che va al pubblico, dando e domandando – perché se ognuno prendesse per un attimo la mia maschera (dice Mercuzio) …
Certo.
Il teatro, come teatro delle passioni, permette quel sapere empatico per cui tutto l’umano mi appartiene. E se questo modo trionfasse (altro iper romanticismo ideologico) non ci sarebbero più guerre.
Quindi.
Tragedia greca e romanticismo.
Coralità, estasi, tripudio. Lamento. La morale finale.
Se poi Lomoro ha il merito di aver montato l’incrocio tragico, e splendidamente diretto i giovani attori nell’interpretazione, folgorante di energia è il tessuto gestuale, danzato, delle interazioni.
Nei loro splendidi costumi in tutto bianco abbagliante – vittime della purezza –
Maria Concetta Borgese li fa fiammeggiare, strisciare, unirsi e deflagrare, alzarsi ed abbattersi, ad elastico, in controcanti.
Così, con sistole e diastole, lo spazio si contrae, e poi si ridilata, quando invadono le gradinate, dove una parte di sedie è stata tolta, per spostare un po’ di pubblico a fondo scena ( creando quello spazio dinamico, non isolato e multifocale che un tempo predicava il terzo teatro di Barba).
Controcanti e rimbalzi ad elastico, per una danza delle contraddizioni.
Due esempi.
Entrambi focalizzati su Romeo (Lorenzo Mangano) e Giulietta (Giada Arrigoni).
Ad inizio spettacolo, dopo un loro roteare avvinti (l’amore), si ha in controcanto un rovesciamento del mood. Ora ciascuno, separato.
Sbattono ai muri opposti, come a forzare una prigionia del destino, e ogni volta che uno dei due si protende verso l’altro, quello né viene respinto come da una invisibile parete di energia. E così, a chiasmo, nel finale, all’interno di una fascia elastica che li collega alla vita, danzano protesi all’indietro, centrifughi e centripeti al contempo, recitando e riattualizzando, come eterno presente, il folgorante inizio, il dialogo al balcone.
Bravi tutti vocalmente e gestualmente.
Sulfureo e amaramente beffardo al giusto Mercuzio (Alessio Corso).
Intensamente romantici Romeo e Giulietta.
Lamentosamente dolenti e colpevoli Baldassarre (Alessandro Cazzaniga) e frate Lorenzo (Manuel Gentile).
Sul piano della gestualità danzante tuttavia, alcuni spiccano di più per scattante disarticolazione, per fluidità. E’ il caso di Romeo e Baldassarre.
Alla danza poi, che è la cifra dominante, fanno da corollario (per gli apici emotivi, e talvolta come stacco) una serie di musiche appropriatamente suggestive.
Bello all’inizio l’esplodere di un imponente requiem di Mozart rielaborato rock, di Alkymidien, innestato sullo smorire di tre impressivi colpi di gong, a seguire la morte di Romeo. E calzante alla fine, scatenato, Rites, di Jan Garbarek. Poi il silenzio, subito travolto dall’adesione emotiva del pubblico, che si scioglie in applausi.
I figli del poeta (Giulietta, Romeo e gli altri) – Liberamente tratto da “Shakespeare Family” di Giuseppe Manfridi – Adattamento e regia Guido Lomoro – con Giada Arrigoni (Giulietta), Lorenzo Mangano (Romeo), Alessandro Cazzaniga (Baldassarre), Alessio Corso (Mercuzio), Manuel Gentile (frate Lorenzo) – coreografie e movimenti scenici Maria Concetta Borgese – luci Gloria Mancuso – costumi Giulia Balbi – – produzione Teatrosophia – Teatrosophia – Dal 23 al 26 maggio 2024
Un ringraziamento speciale a Sabrina Galateri, direttrice dell’Accademia Beatrice Bracco