Intenso, commovente, empatico, tenero e coinvolgente, ritratto di un’umanità profonda che unisce bambini privati della loro infanzia e vecchi appesantiti da vite troppo difficili; giovani esistenze indurite dalla necessità di difendersi e anziani che rivivono i loro traumi senza saperne uscire più.
“La vita davanti a sé” è l’ultimo film, appena uscito sulla piattaforma Netflix, di Edoardo Ponti, con Sofia Loren come protagonista.
Un film ambientato a Bari, paradigma di una qualsiasi città del Mediterraneo, con il suo porto, il mercato che somiglia ad un suk e un quartiere multietnico dove la solidarietà rimane l’ultima barriera al degrado e all’abbandono.
È qui che troviamo Madame Rosa (Sofia Loren), anziana ebrea sopravvissuta ai campi di concentramento, che si occupa di guardare i bambini delle prostitute della zona e che nell’incontro con il piccolo senegalese Momo (Ibrahima Gueye, per la prima volta sullo schermo) trova un alleato che, senza sapere nulla di ebrei e persecuzioni, tuttavia riesce a capisce profondamente il suo malessere e quella sua strana paura, quello smarrimento così simile al suo.
Un’umanità che non giudica, che partecipa ai dolori altrui, che trova nella solidarietà un piccolo balsamo lenitivo, un momento di sollievo.
La storia è tratta dal romanzo del francese Romain Gary, scritto nel 1975 e vincitore del premio Goncourt, ambientato a Parigi.
Il film ruota tutto intorno a Sofia Loren, alla sua bellezza, alla sua dolente umanità, fatta di occhiate dolorose e tristi, a volte perse ma sempre materne, e bastano queste inquadrature per svelarci tutto un mondo dove le parole servono a poco, diventano quasi superflue, non ci interessano le storie tragiche che sono dietro ai personaggi, quello sguardo ci ha già detto tutto quello che dobbiamo sapere.
A lei, grande attrice, bastano il suo corpo e il suo viso per lasciarci intravedere il mondo di sofferenza e umanità che si porta dietro. Ed è proprio quel dolore comune a tutti i personaggi del film che li rende capaci di riconoscere più facilmente il disagio, che fa intravedere la tenerezza dietro l’aggressività di Momo. Loro due si riconoscono, un’anziana donna ebrea e un ragazzino senegalese sono quanto di più simile si possa immaginare, sono entrambi sopravvissuti e stanno lottando per farcela, per non mollare, e per questo cominciano a camminare insieme, per condividere un pezzo di strada, un profondo amore reciproco e una strana alleanza.
Tutto il cast contribuisce a rendere credibile il mondo descritto da Edoardo Ponti e a farci amare questa umanità variegata: un medico che si occupa dei bambini abbandonati cercando di dargli una casa e di tenerli lontani dalla strada (Renato Carpentieri), un mercante mediorientale di libri antichi, costretto oggi a vendere solo oggetti di plastica (Babak Karimi), lo spacciatore e boss del quartiere (Massimiliano Rossi) e la giovane, vulcanica, vicina di casa (Abril Zamora), con un bimbo piccolo, di cui intuiamo, a poco a poco, essere stata prima il padre e ora, con un cambio di sesso, la madre.
A rendere ancora più intensa l’atmosfera c’è la colonna sonora con la canzone scritta da Laura Pausini “Io sì (Seen)”, con Diane Warren e Niccolò Agliardi, che bene interpreta tutti i temi del film. Si parla già di nomination ai prossimi Premi Oscar per Sofia Loren e Laura Pausini.
Insomma un film da vedere, un film che al di là dei facili elementi, anche molto attuali, è universale nei sentimenti, nel dolore, nelle paure e nei fantasmi che perseguitano i protagonisti, in una vita che è troppo difficile vivere da soli, una vita che è possibile solo nella condivisione di chi si affianca a te e divide il fardello.
Questa è una lezione senza tempo, sulla quale non si può non essere d’accordo, anzi, oggi più che mai, è l’essenza stessa dell’essere “umani” e della società che dovremmo costruire.