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La vacca: tra desiderio e periferia

La vacca: tra desiderio e periferia

Il testo di Elvira Buonocore, andato in scena al Piccolo Bellini di Napoli dal 30 settembre al 5 ottobre, comunica dal palcoscenico la realtà periferica del desiderio.

Una periferia persa in una provincia ignota, riconducibile ad un sito qualunque nel napoletano soltanto per il dialetto dalla cadenza familiare. Eppure, come il luogo, anche la lingua in quello spazio sembra perdere una propria marcata identità, si trasforma in una serie di suoni quasi animaleschi con una dicitura così estrema da sembrare al limite tra l’irreale e il terribilmente concreto. In questa idea percettiva di ambientazione, fratello e sorella conducono le loro rispettive esistenze allo stato brado, lontani dal mondo, non visti da nessuno; se ne stanno lì, lui a sfinirsi di fatica e lei a saltellare danzando mentre guarda verso un orizzonte buio, entrambi nella desiderosa attesa di essere scoperti. Poi, un viaggiatore li nota, un uomo che se ne va cercando la sua mandria dispersa, anche lui aggrappato al desiderio di riaverla indietro sana e salva. Con questa narrazione che prende i toni di una fiaba neorealistica, va in scena al Piccolo Bellini La vacca, uno spettacolo scritto da Elvira Buonocore e diretto da Gennaro Maresca, con le interpretazioni pittoriche di Vito AmatoAnna De Stefano e lo stesso Gennaro Maresca.

Al centro del palcoscenico, non direttamente citato ma ogni volta raccontato in tante forme diverse, c’è il desiderio. Esplorato tra varie sfumature e assonanze, in un tempo odierno in si cerca di ridurlo a una logica. Donata, a un certo punto della sua giovanissima vita, si guarda allo specchio e desidera un petto più ampio, una sensualità felina, desidera desiderarsi ed essere altrettanto desiderata. Mimmo, il fratello, sembra quasi desiderare di non desiderare più e si immerge totalmente nel lavoro, perché la vita non può essere trascorsa per sempre a saltellare o a danzare come fa la sorella. Eppure, un piccolo desiderio lo nutre: si butta alla ricerca spietata dell’insegna, perché si possa ritornare a fare capire che quel loro spazio è un mattatoio; allora, tutto sommato, il suo desiderio è di essere trovato, finalmente scoperto, visto in mezzo a quello squallido niente. Elia, infine, un uomo misterioso alla ricerca delle sue mucche disperse, tutto quello che desidera è ritrovarle poiché era tutto ciò che possedeva e pare disposto a tutto, finanche a perdere la ragione. Attraverso questi tre fili narrativi, La vacca esplora il desiderio ardente, ciò che riconduce a un bisogno recondito, a una necessità tanto inespressa quanto prorompente. Un qualcosa che si esprime sul piano emotivo ma anche su quello fisico, tramite quei corpi che fluttuano e nel frattempo comunicano una profondità inesplorata e latente.

In fin dei conti, pare che anche il testo di La vacca sia un frutto nato dal desiderio. Non ha avuto un principio facile: nato nell’estate 2019, ha dovuto fare i conti con quella che poi si è rivelata una pandemia globale, restando nello spazio silenzioso dell’attesa durata un anno e mezzo circa la riapertura dei teatri. Nonostante ciò, per la drammaturga e per il regista, un incontro artistico proficuo di intesa, si è rivelata persistente l’urgenza di dare voce ai luoghi di una periferia abbandonata a sé stessa, di restituirle un linguaggio che esprimesse i desideri intimi rinchiusi lì e solo apparentemente dimenticati. Infatti, così spiega Elvira Buonocore sul suo spettacolo: «Si ribadiva in me un immaginario che già da tempo avevo sviluppato: quello della provincia, della periferia ignorata, di certi luoghi dell’abbandono in cui si abita senza vivere. E si dorme senza mai svegliarsi. La rappresentazione di uno spazio profondamente marginale rientra in un obiettivo più ampio, una ricerca sulla provincia che provo a condurre cautamente, partendo dal linguaggio. Una lingua che qui è imbastita per l’occasione, ma che al contempo è agganciata al suono del mio dialetto: la risultante vuole essere un artificio che renda il parlare dialettale più estremo, reale ma pure più vicino all’invenzione. […] Il testo mette in scena uno stato emotivo, una condizione di precarietà che abitiamo, ogni giorno, quando indossiamo la nostra pelle. Quando siamo ciò che siamo. È proprio il rapporto con il corpo a essere al centro di una narrazione che s’incardina sul desiderio. Un desiderio che si manifesta in un luogo incapace di riconoscerlo, di educarlo e di farlo vivere. In un tempo, il nostro, in cui il desiderio è subito catturato e calato in una forma non appena si manifesta, i tre protagonisti si oppongono a questa logica» – fonte Dramma.it.

Infine, esce l’insegna: il mattatoio. Cala dall’alto, colorata di un verde luminoso. Quel fazzoletto di terra senza nome e senza occhi, lì dove si scrutano orizzonti invisibili, lì dove senza insegna soltanto il caso ci può portare qualcuno e quando succede subentrano contrasti dirompenti, è nient’altro che uno spazio abusivo dove si mettono a macellare le carni, forse anche quelle delle mucche del viaggiatore misteriosamente ostinato. E come un velo che si squarcia, questo momento corrisponde alla rottura del desiderio, alla trasformazione di quest’ultimo in un ruggito di violenza e sopraffazione. Donata smette di danzare e Mimmo si perde anche quell’ultimo pezzetto di gioia; Elia se ne scappa dopo una furia cieca e carnale. La vacca si conclude così, da un sorriso amaro a una sensazione di annientamento, come una fiaba neorealistica tra sogno e cruda autenticità.

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La vacca – testo di Elvira Buonocore – regia di Gennaro Maresca – con Vito Amato, Anna De Stefano, Gennaro Maresca – disegno luci Alessandro Messina – luci Mario Ascione – costumi Rachele Nuzzo – produzione B.E.A.T. teatro – Piccolo Bellini di Napoli (Teatro Bellini) dal 30 settembre al 5 ottobre 2025.

Fonte immagini: Ufficio Stampa

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