La trappola del narcisismo: un tragico minuetto di false coscienze

Von Gloeden: uno stolto scoronato

Il barone Wilhelm Von Gloeden (1856-1931) è stato uno dei grandi pionieri della fotografia, ma certo la sua fama dura per la suggestione omoerotica dei suoi modelli efebici, semplici popolani da lui atteggiati, seminudi, in pose grecizzanti, mitologiche, sullo sfondo di Taormina. Un prolungamento estetizzante – preraffaelita – della passione neoclassica che spinse tanti tedeschi al sud, dove il sogno estetico si mischiava (in modo non sempre limpido) al brivido primitivista e alla vacanza sessuale delle elites europee, a Capri come in Sicilia. Si pensi in tal senso allo scandalo omoerotico – a Capri – e al conseguente suicidio del magnate dell’acciaio, Krupp.

Von Gloeden, che emigrò ventiduenne al sud per curarsi dalla tubercolosi, visse sempre a Taormina, ma solo quando gli venne a mancare la rendita (per il fallimento del patrigno, nel 1894) fece della fotografia un mestiere, e non un hobby. A questo punto aveva quasi quarant’anni.

Che Von Gloeden fosse omosessuale è certo. Non altrettanto che fosse pederasta, e che la fotografia fosse un modo di avvicinare e sedurre. 

Per alcuni (R.Peyrefitte, 1949; G.Saglimbeni, 1990) è così. Parlano delle orge notturne nella casa di Monte Ziretto, e della complicità ipocrita di una parte del clero.

La pensano diversamente altri. Per Pietro Nicolosi, (I baroni di Taormina, 1959) Von Gloeden  era un’artista materialmente disinteressato. A sua volta – nella sua erudita biografia dell’artista (1977) – Charles Leslie afferma, sulla base di fonti attendibili, che al barone piacevano  gli uomini maturi. Pare inoltre che fosse raro che il barone avesse contatti fisici con i suoi modelli, se non per spostare un braccio o girare la testa, in modo da guidarli nell’assumere la posa in cui dovevano essere fotografati. 

A questa seconda linea, con qualche deviazione di fantasia, si attiene il testo di Antonio Mocciola, Gloeden’s darkroom, (Roma- Teatro  Cometa  Off, 30.1-4.2.2024), per la regia di Mauro Toscanelli. Mocciola ne fa sì un artista disinteressato, quasi infastidito quando le madri vengono a vendergli i modelli (qui Sebastian), che mette in posa con brusco nervosismo. E Gloeden appare anche tollerante, ma ironico e sprezzante, rispetto alle orge in villa, qui non organizzate da lui, ma addirittura dal prete. Cederà però all’amore non per un maturo, ma per un ventenne (Teodoro), che lo seduce fingendo di ignorare la sua fama d’artista. In realtà un ricattatore al servizio di un prete che vuole fare le scarpe al collega corrotto, ma anche pagato dalla sorellastra di Gloeden (Sofia), che vorrebbe allontanare il fratello dalla Sicilia, per tenerlo per sé. Quella che monta Mocciola in definitiva, andando di fantasia, è una storia di presunzione e fragilità, un melò in minore del duo Otello-Iago. Gloeden si sente un dio, benefattore dei siciliani. Ai suoi modelli paga persino i diritti, ed è sprezzante sulla loro ignorante corruzione. Sfruttati ? Ben altri padroni per lui li sfruttano. E irride anche il moralismo della sorellastra, esortandola a godere. Casca tuttavia nelle reti di un Teodoro-Iago mellifluo e burlone, che lo sbilancia sul lato narcisistico, mettendolo fuori ruolo.

I due giovani – il modello Sebastian prima – e poi con metamorfosi alla fine anche Teodoro, sono nei loro discorsi violentemente moralisti sulla falsa coscienza di Gloeden. “Credi di approfittare di noi, ma siamo noi ad approfittare di te!”

Emerge qui forse una lieve vena pedagogica del coté politico sociale di Mocciola (si vedano i suoi testi su zolfare e caporalato), ma ci sta.

Alla fine comunque oscilliamo tra la malinconia tragica di re Lear (a mio avviso citato anche iconograficamente da Toscanelli), con la sua folle presunzione, e il burlesco molieriano-goldoniano della beffa allo stolto. 

La scena è montata abilmente da Toscanelli su due piani.

Davanti la scena nuda dove si aggira nervoso e concionante (entrando e uscendo) Gloeden, burattino borborigmico della propria presunzione di controllo. Un abile Francesco Giannotti che apostrofa il pubblico, si racconta, recrimina, ma sempre shakespirianamente a schiena dritta.

Pochi oggetti. Una valigia aperta a terra, da cui levare cose, ed uno sgabello al centro, che coperto di panno nero mimerà la macchina fotografica.

L’altro piano – dietro – è una zona di transizione, una zona ‘non io’, dove si muovono le ombre del giudizio e della tentazione, che progressivamente fiaccano le certezze del protagonista.

A destra una serie di panche, dietro veli trasparenti appesi, da cui vanno e vengono le figure in scena, e da dove parlano. E’ la zona delle accuse e della manipolazione. 

Lì conciona e avverte, con toni neutri e ossessivi, vestita di rosso fuoco, la severa sorellastra (una splendida Serena Borelli, statuaria e persecutoria). Lì come in una cantilena beffarda e monodica, siculofonica volutamente a birignao, si scatena imperturbabile a vendere i figli e se stessa, la madre tipo del corrotto popolo (una abile Silvia Casadei, caricatura della sicilianità). E da lì scendono a valle, in avanscena, prima il modello, Sebastian (Cristiano Migali, rancoroso ed attonito), e poi Teodoro, il seduttore (Salvo Lupo, mellifluo e romantico).

A sinistra invece – sempre dietro – in controcanto al velario delle ombre, un quadrante nero, che fa da cornice ed ingresso-uscita agli inferi dell’eros. Al perturbante. Lì un severo Gloeden crocefigge in pose attonite Sebastian, ma lì anche si avvinghiano e patiscono l’eros il barone e Teodoro, in un eccesso forse di letteralità del nudo e dei toccamenti, che tuttavia gli attori riescono a contenere in danza sommessa.  Talora in piena luce, talora nel buio, con riquadri di fosforescenza.

A tessere i passaggi abili giochi di buio e luce alternati, talora slittando nel blu e nel rosso.

E in ordito una fitta ed intelligente tramatura di musiche, in controcanto, tra cui spiccano alcuni splendidi brani melismatici di Arvo Part.

Ma dicevamo. Una recitazione in piedi.

Giannotti è bravo (e certo ben diretto) a franare in piedi, prima nello smarrimento dell’amore, e poi nello sbigottimento del tradimento. Bella la sua danza immaginaria con la camicia bianca a mimare il partner, e quella poi volto a volto, a giro stretto, con Teodoro, mani tese a carezzare il volto, fermandosi in tensione poco prima, roteando nella delicata tensione desiderante. E bello soprattutto il semifinale, quando i due persecutori lo vestono in trono. Seduto al centro – il panno nero della camera oscura ora a mantello.

In testa la corona di alloro dei modelli, ed in mano come scettro il fiore. Ora è lui il modello della sconfitta. Come dicevo, un re Lear che mestamente prende coscienza, dignitosamente, della propria stoltezza. Un re che credeva di governare le persone, i sentimenti, gli eventi.

Ma anche l’illusione di quest’ultimo residuo di dignità e controllo improvvisamente esplodono. Si denuda, strappa i teli, e ululando si abbatte su una panca ai piedi dello statuario gruppo degli ‘ALTRI’. Poi si alza, catatonico, e appoggia la testa, triste, alla parete del quadrante dell’eros, mentre tutto svanisce in musica e applausi.

E molto altro si potrebbe dire delle idee di regia. Limitiamoci ad un paio di macro segni che scandiscono in vortice l’avvicinamento alla detronizzazione.

Mentre Gloeden dorme a terra, nel sogno dell’amore, gli si agitano intorno Sebastian e Teodoro, ma soprattutto si scatena un microfonato off di voci di folla, persecutorie e sovrapposte, frenetiche … “Senti che dice! Guarda che fa!”

Il coro greco dell’accusa popolare?

Sì. Ma che poi esplode nell’estasi dei persecutori. Esplodono infatti in scena, vorticando a tre in un ballo frenetico; la madre la sorella Sebastian, poi Teodoro da solo.

Vorticano tenendo a braccia tese (come appoggio gestuale di contrasto), in mano, uno sgabello. Il trono? Il potere?

Se in corso d’opera i personaggi hanno ambivalenze e contraddizioni (Gloeden sulla padronanza, Sebastian sul pudore, Teodoro sull’amare il barone, la sorellastra sul tollerare la superficialità e l’eros del fratello), il finale è esplosione tragica: prima vortice e poi urlo.

I protagonisti si separano nettamente: perseguitato e persecutori.

Anche se persecutori con motivazioni diverse. Sebastian per odio. La sorella per gelosia moralista. Teodoro e la madre di Sebastian per soldi. 

Non è il fronte del bene, perché la madre e Teodoro non hanno nessuna morale. Insomma un groviglio di colori posture e ipocrisie, che va a crescere.

E gli applausi seguono.

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Gloeden’s darkroom – di Antonio Mocciola – Regia Mauro Toscanelli – Con Serena Borelli, Silvia Casadei, Francesco Giannotti, Salvo Lupo, Cristiano Migali – Drammaturgia musicale Mauro Toscanelli – Costumi Emanuele Zito – Scene Mauro Toscanelli, Marco Schaufelberger – Disegno luci Gloria Mancuso – Ideazione grafica Cristiano Cocumelli – Cometa Off dal 30 gennaio al 4 febbraio 2024

Foto di copertina: Francesco Giannotti (Barone Wilhelm Gloeden)