Un necessario, anzi opportuno aggiornamento di un breve romanzo di Tolstoj, uno degli ultimi dopo la sua conversione. Troppa la distanza tra uno scritto concepito alla fine del XIX secolo e la contemporaneità: chissà quante situazioni o quanti modi del pensiero o dell’agire saranno stati scavalcati dalla successione temporale. E dunque il bar della stazione al posto della location dell’originale. Quattro giovani ragazze vestite alla moda che si intrattengono tra uno spritz e una chiacchiera nell’attesa del loro treno. Ma poi ti accorgi che a segnare il passo, a neutralizzare quell’aggiornamento temporale della situazione ci pensano i contenuti del loro dire. Si parla di amore, di quello possibile e necessario, di quello sospirato o sperimentato, di quello da rifuggire. Insomma il tema –con buona pace dei propositi di rinnovamento- è largamente posseduto da chi parla e da chi ascolta. Tanto che a intervenire nelle interlocuzioni al volo è anche la stessa cameriera del bar (la quinta donna del gruppo), che aggiunge la sua a quelle egualmente veloci e banali delle primarie compresenze di genere. Prima ancora dell’avvento del vero protagonista di questa vicenda.
Il suo apparire incarna una svolta nel vero senso del termine: una svolta estetica prima di tutto (troppo sorpassato- non casualmente- il suo modo di vestirsi, troppo poco trolley la sua antiquata valigia), ma soprattutto nei contenuti del suo precipitato racconto.
Ma la svolta non è solo questa: il suo ingresso sulla scena paralizza l’intero gineceo in campo (il pretesto narrativo è anche per lui l’attesa di un treno, che si consuma con il febbricitante ingozzarsi di superalcolici sul tappeto di evocazioni musicali della Sonata a Kreutzer di L. van Beethoven). Tutte incuriosite le ragazze nell’ascoltare un delirio narrativo connotato da un crescendo che le chiama prima alla polemica, ma, progressivamente, al silenzio raggelato dell’ascolto di una confessione. Proprio come non succede ormai più ai giorni nostri, dove la dimensione dell’ascolto è diventata vetusta, come vetusti sono i discorsi, le parole e la valigia dello sconosciuto narratore.
Costui, lo si capisce da subito, deve essere stato traumatizzato dall’incontro con l’altro genere: riconosce la gioia dell’innamoramento iniziale, ma deve constatare che ben presto tutto si trasforma in gelosia e nel desiderio di possesso dell’altro. La felicità coniugale è un’illusione nella quale i terminali sono tutti occupati: l’uomo incapace di contenere le proprie pulsioni e le donne, marginali (e conniventi) oggetti di desiderio. Che si possono anche ammazzare, come urla al vertice del suo delirio (non importa se agito veramente o solo teorizzato, ma il bravissimo attore protagonista Stefano De Santis ce la mette proprio tutta per convincerci che la sua è autentica cronaca di un massacro). Il suo delirio omicida cerca scusanti nel primato della passione (capace anche di armarti la mano in un picco di gelosia) e nell’avvenenza della femmina, sempre pronta a effondere seduzioni al primo venuto. Ma è il solito armamentario giustificazionista dell’omicida, sul quale siamo –purtroppo- costantemente aggiornati.
C’è tutto l’ultimo Tolstoj in questi passaggi della riduzione teatrale del romanzo: lo riconosciamo nel richiamo tutto religioso a piegare l’istinto erotico alla virtù cristiana della continenza (e anche in certe tirate antisemite che puzzano di pogrom…) oppure nella profetica indignazione verso un’industria tutta orientata a produrre e a servire lo sperpero del lusso.
Ma l’ultimo aggiornamento, quello che maggiormente rivela l’impianto fondamentalmente apologetico della presente sensibilità faticosamente raggiunta dai nostri tempi, sta tutto in quel coro di donne sulla scena che si chiude in un cerchio, stringente di dannazione, verso quello sconosciuto venuto dal passato a eternare pensieri e comportamenti di cui vorremmo fare volentieri a meno, ma con i quali –disgraziatamente- dobbiamo ancora e non di rado confrontarci.
Il giusto riconoscimento per questo interessante allestimento va all’Officina Teatrale, al regista Massimo Venturiello (che cura anche l’adattamento), al già citato Stefano De Santis e al brillante e affiatato comparto attoriale delle cinque ragazze: Giulia Sanna, Arianna Aloi, Valentina Bandera, Silvia Micunco, Mariachiara Basso.
Luci e fonica di Paolo Orlandelli, costumi di Silvia Polidori.
Al Teatro di Documenti fino al 13 novembre prossimo.