Non soltanto il due novembre c’è l’usanza d’andare al cimitero per adornare il loculo marmoreo del proprio caro. Nei suoi versi più famosi Totò ci raccontò l’avventura che gli era appena capitata trovandosi al cospetto di due ombre che tomi tomi se ne tornavano verso le loro tombe discutendo sull’uguaglianza che la morte stabilisce senza remissione. Siddharta Prestinari, in Fiori di campo, invece, ribalta la situazione offrendo l’opportunità al pubblico degli estinti di ascoltare i capricci dei vivi, i quali, di volta in volta, ogni giorno, con la scusa di portare all’avello margherite e crisantemi, vengono a confessarsi davanti a chi, in realtà, non può più sentirli. A causa di questa ineluttabile certezza il cimitero si anima (sic!) di tutte quelle situazioni imbarazzanti che soltanto noi vivi sappiamo creare e portare avanti.
In una cornice scenografica molto essenziale, forse troppo, tra lumini accesi e foglie secche, la quotidianità di coloro che vengono a omaggiare chi non c’è più, si fa largo tra la tranquillità del luogo portando anche un po’ di scompiglio. Così si assiste a una serie di visite funeree – che nell’immaginazione comune dovrebbero svolgersi in un contesto sobrio e assai composto – toccanti e aggressive, strampalate e addirittura osé. C’è la giovane madre che per liberarsi dal senso di colpa per non poter essere più d’aiuto al proprio figlio, s’inventa un’improbabile storia d’amore per non tornare a piangere sulla tomba del piccolo. Ci sono le due sorellastre che spregevolmente litigano, non solo per l’eredità, davanti al marmo del padre. C’è la nipote, a suo modo tenera e affettuosa, che per la prima volta va a trovare la nonna, ma per motivi professionali è costretta a fingere un orgasmo al cellulare. E c’è il vecchio marito acciaccato, accompagnato dalla badante, che oltre a togliere le foglie secche dal marmo, esprime il suo disappunto sul mondo tecnologico in cui è costretto a vivere ormai da escluso.
Si tratta di una effervescente carrellata di vivacità in un camposanto in cui la morte si manifesta danzando il flamenco, restituendo così drammaticità e pathos ad una scrittura che invece trova ampi spazi di ironia anche grottesca e talvolta surreale. Dialoga con la morte l’anima inquieta di un architetto non ancora sessantenne, deceduto da appena quattro giorni, ancora stordito dall’effetto dell’aspirapolvere: perché così accade nel momento in cui si lascia il corpo – racconta lui stesso a un simpatico dirimpettaio – all’improvviso ci si sente risucchiati da un aspiratore. Costui vaga per i vialetti in cerca di qualcuno che gli dia indicazioni: non ha capito «come funziona qui, com’è l’organizzazione, cosa si deve fare», insomma vuol sapere come passare il tempo! Sì, perché, gli abitanti del cimitero sono tanti, aumentano ogni giorno di più e soprattutto sono tutti al riparo della paura, quella paura che invecchia i vivi prima del tempo, e che li rende cattivi, bugiardi, fragili e meschini.
Loro invece hanno perso la considerazione dell’errore, il senso del dubbio, la percezione del fallimento, insomma sono più sereni, stanno nell’aldilà a piedi nudi e, al cospetto di tanta ridicola follia, in coro sembrano ripetere «nuie simmo serie… appartenimmo a’ morte».
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Fiori di campo scritto e diretto da Siddhartha Prestinari; con Alessandra Berton, Alberto Bognanni, Manfredi Gelmetti, Marco Giandomenico, Caterina Gramaglia, Paolo Perinelli e Giada Prandi. Cometa Off, fino al 5 febbraio