L’emergenza determinata dalla pandemia da coronavirus, oltre a molte altre forme della vita sociale, ha oscurato il fenomeno teatrale. Impossibile perfino ipotizzare quando potranno essere riempiti i grandi teatri di Roma o le decine e decine di spazi più o meno angusti dove è passato per decenni tutto il teatro di ricerca. Allora si possono ipotizzare forme alternative per lo spettacolo dal vivo la vasta platea degli addetti e degli utenti si è messa al lavoro per cercare qualcosa di praticabile nel ristretto ventaglio delle possibilità di una ripresa. Siamo tutti sicuri che la dimensione teatrale tanto è radicata nel nostro codice umano prima o poi riprenderà. Oggi -nella fase due- è ancora il tempo legittimo dello smarrimento e della riflessione.
Forse, non sarà male allora dare uno sguardo al passato per rassicurarci, nell’attesa che prenda forma la nostra comune speranza di rinascita.
Nessuna pretesa storica, niente di inappuntabile, solo un sommario omaggio all’energia vitale che il Teatro ha sempre dimostrato di possedere.
Siamo generalmente portati a pensare che l’evento teatrale – almeno da quando fu pensato per la prima volta e cioè cinquesecoli prima della nascita di Cristo o giù di lì- ha sempre scortato l’avventura dell’uomo.
Ma non è andata così, almeno qui da noi in Occidente.
Già durante l’antica Roma lo spettacolo teatrale era visto con una certa ostilità per quella tendenza, tipica della tragedia greca,importata assieme agli spazi, di affidare la comunicatività alla parola, piuttosto che al corpo. Così il fenomeno teatrale aveva visto una certa compressione, a tutto vantaggio degli spettacoli gladiatori o delle corse delle bighe o al massimo di mimi e danzatori. Il teatro come luogo di riflessione partecipata, capace di coinvolgere la polis come avveniva nella Grecia antica, era ormai progressivamente tramontato, trasferendosi nei ristretti cenacoli, disposti a recepire le tragedie di Seneca. Oppure l’arte teatrale era diventata modello retorico per i grandi oratori come Cicerone, trovando accoglienza nei tribunali o nei consessi senatori.
Le stesse commedie di Plauto e di Terenzio, che pure godevano di un certo pubblico, avevano abolito il coro della tragedia greca e si erano avvicinate al modello della fabula togata con musiche e danze sulla scena e contenuti più vicini alla vita quotidiana, mettendosi al riparo da quelle speculazioni filosofiche tipiche dei grandi tragici ellenistici.
Così anche i grandi spazi teatrali erano diventati progressivamentearene per ludi gladiatori, giochi circensi e danzatori.
Lo stesso Imperatore Giustiniano (che pure aveva avuto i suoi problemi sul tema, essendosi invaghito di una attrice, già prostituta, con cui sarebbe riuscito alla fine a sposarsi) aveva fatto in modo nella sua Bisanzio, divenuta nuova capitale dell’Impero, di trasformare tutti i grandi luoghi del teatro in ippodromi, capaci di contenere perfino centomila spettatori.
Il Cristianesimo, con la demonizzazione virulenta del fenomeno degli spettacoli dal vivo avrebbe oscurato definitivamente la forma teatrale: già a metà del primo secolo dopo Cristo il filosofo cristiano Tertulliano si era scagliato contro le rappresentazioni teatrali condannandole alla dannazione perché espressioni dell’idolatria. Gli attori vestivano interpretazioni lontane da sé, magari si camuffavano da donne, e questo veniva giudicato un insulto al Dio unico e al culto dell’anima soggettiva.
Quei giullari, poi, che con vesti attillate mettevano in risalto le proprie forme, radunavano curiosi e spettatori per le strade divertendo e raccontando storie esotiche, dense di erotismo! Uno scandalo insopportabile: erano loro i soggetti preferiti di quegli strali.
Ma teniamoli d’occhio i giullari, perché proprio da loro sarebbe ripartito il teatro.
Ma non ce l’avrebbero fatta da soli, i giullari, senza l’aiuto… proprio della religione cristiana. La Chiesa si era accorta che la comunità dei fedeli partecipava alle celebrazioni quando le ritualità riuscivano a contaminarsi con i modelli rappresentativi. E allora ecco fiorire dentro le navate centrali, le sacre rappresentazioni del Natale, o della Pasqua, inscenate da frati e da seminaristi (molte volte vestiti da donne…). Con l’evento più atteso dai fedeli : il quem quaeritis, cioè la rievocazione dello sgomento delle donne e degli apostoli davanti al sepolcro vuoto di Gesù e alla domanda dell’Angelo “chi cercate?”.
C’erano pretendenti numerosi tra i fedeli che volevano vestire chi i panni delle postulanti, chi delle guardie, chi degli apostoli, chi delle tre Marie, con l’esigenza presto manifestatasi di allargare la rosa degli interpreti, introducendo personaggi non descritti dal canone includendo perfino la figura del diavolo (la più richiesta dai pretendenti alla ribalta, perché quella che conteneva la maggiore varietà di toni interpretativi).
Le drammatizzazioni diventavano numerose e affollate e presto sarebbe sorta la necessità di assoldare proprio quei negletti giullari, riammessi negli ambienti sacri solo per assicurare con la loro arte la riuscita dell’evento. Le Chiese di mezza Europa sarebbero diventate ben presto un surrogato degli spazi teatrali dismessi, con un “cartellone di eventi” talmente pieno che non poteva non suscitare allarme e indignazione da parte dei severi guardiani della fede.
E quindi, basta così, tutti fuori dal Tempio: ma le Sacre rappresentazioni, no, quelle vennero giudiziosamente “tollerate”sul sagrato delle chiese, dove sarebbero continuate indisturbate, con tutta la provvista delle declinazioni artistiche (incluse quelle irriverenti o buffonesche). Siamo ancora nell’alto Medioevo, ma il Teatro è tornato a infiltrarsi nel catino dei bisogni umani, utilizzando grottescamente il pertugio lasciato aperto proprio dal suo nemico. Fuori, per le strade le Sacre rappresentazioni più osservanti, quelle dei flagellanti o dei laudatori come Jacopone da Todi prendevano le forme stesse delle rappresentazioni teatrali, un format irrinunciabile per radunare spettatori, prima ancora che fedeli. E il Teatro, cacciato dalla porta dell’Occidente cristiano, se la rideva, osservando il Santo per eccellenza, Francesco di Assisi,autonominarsi “giullare di Dio”. Una locuzione che deve essere suonata come uno schiaffo per quelle gerarchie tetragone che avrebbero dovuto ingoiare di lì a poco anche lo sberleffo del Padre della Lingua italiana che avrebbe battezzato il suo capolavoro Commedia (e loro avrebbero premesso Divina, come un risarcimento postumo).
E’ il trionfo del giullare, che sciorina tutta la sua arte irriverente sotto ai balconi della bella siciliana, raccontata da Cielo d’Alcamo, in quella famosissima composizione di Rosa fresca aulentissima che rappresenta un po’ il germe della rinascita della commedia italiana, con quello scambio audace di battute allusive tra un giovane e la bella, maliziosamente ritrosa, affacciata al balcone.
Il seme è stato piantato nuovamente, ma ci vorrà ancora del tempo, un paio di secoli almeno, prima di veder fiorire la commedia giocosa di Ruzante, non prima che fosse inaridito il filone dei Misteri che aveva attecchito specialmente in Spagna e in Inghilterra. Ci vorrà il Rinascimento, con la riscoperta nel periodo dell’Umanesimo delle commedie di Plauto e di Terenzio, per permettere che il teatro venisse nuovamente a riprendersi i suoi spazi al chiuso. Dapprima negli ambienti nobili, per il gusto dei governanti e poi di nuovo l’arte libera per le piazze.
Ci metteremo sicuramente di meno dopo il lockdown a permettere che il teatro torni libero a riprendersi i suoi spazi, ma l’essenziale è che la pianta rimanga viva, esattamente come era accaduto al tempo della dannazione di quella espressione artistica che cacciatadai suoi templi continuava a sopravvivere sulle gambe gracili di pochi saltimbanchi lesti a infiltrare la loro arte in ogni spazio disponibile.
Qualcosa di simile accadrà nel Nuovo Continente, quando i Padri Pellegrini colonizzeranno l’America, portando dentro le bisacce la stessa maledizione contro l’arte teatrale.
Ma anche lì… Ne parleremo presto.