Lotta con. le ombre dell’amore
Come capita spesso con le opere celebri, e tanto più quando si tratta di ridurre la narrativa per teatro, anche qui Martina Badiluzzi sceglie intelligentemente un taglio obliquo – dalla parte dei figli – pur mantenendo il titolo originale, Cime tempestose.
Il romanzo di Emily Brontë, pubblicato per la prima volta nel 1847, sotto lo pseudonimo di Ellis Bell, è uno dei capisaldi della narrativa romantica, un pezzaccio dalle tinte fosche, che all’epoca fece scandalo per la mancanza di un finale morale. Narra di orfanitudine e violenza, di amore disperato odio e vendetta, e della resilienza inutile e tragica di un reietto, Heathclif. Adottato, inviso al fratellastro, ma amato in gioventù dalla sorellastra, Catherine, viene poi rifiutato da lei per il più raffinato Edgar Linton. Heathclif tornerà ricco e architetterà per vendetta la rovina di tutto il clan. Pur restando sotterraneamente innamorato di Catherine (e lei di lui), ne sposa la cognata (Isabel), e manipola i figli di tutti per impadronirsi delle proprietà. Ma quando muore Catherine, di parto, generando Cathy, impazzisce di dolore, e anni dopo, alla morte, vuol esserle seppellito accanto. C’è poi una seconda generazione, di tutti orfani di madre: Linton, orfano di Isabel, e promesso sposo di Cathy (ma morirà); Hareton, orfano di Frances, e il cui padre, il fratello di Catherine, Hindley, alcolista per dolore, lo maltratta, lasciandolo crescere selvaggio; e Cathy orfana di Catherine, e succube delle leggende su di lei.
Nel romanzo la narrazione è mediata dai racconti della governante (Nelly) ad un ospite, in due momenti diversi, due flashback che però procedono lineari, in avanti, con tutta la suspence del caso, e dove il focus è soprattutto su Heathclif.
Qui si sceglie il punto di vista dei reduci, dei figli, che è allo stesso tempo voglia di capire, ferita della memoria ed istinto di fuga. Ma può il futuro nascere uccidendo il passato? Sì, certo. Come nel romanzo, Hareton e Cathy sceglieranno la rinascita e l’amore, e di bruciare il passato, ma dopo esservisi immersi, come il coltello nella carne viva. Perché tutto è accaduto, ma accade ancora in loro, non smette di accadere, come una maledizione ma anche come sacra radice.
La suspence quindi diventa qui il risorgere a ritroso, minaccioso ed incombente – come una casa di spettri – del passato. E’ un camminare avanti risucchiati indietro. Non è un tempo lineare, ma di macerie, frammenti immobili, evaporazioni.
Ecco che quindi al centro, come fulcro della dinamica scenica, viene posta una sintesi simbolica della casa in rovina, attorno alla cui rivisitazione ruotano i dialoghi gli scambi gli incontri dei due giovani, che già si amano (E convivono? Lei parla degli incubi notturni di lui), e al contempo sono tormentati dubbiosi litiganti.
La scena è suggestiva.
In un nero generale di sottofondo (pareti, pavimento, ed un secondo sipario posteriore a tendaggio, da cui emergono e scompaiono), nella oscura penombra, tralucono le cose, evidenziate da luci mirate o da fari obliqui. A terra un’isola di polvere bianca abbagliante (cenere?), con a destra riverso un grande lampadario a gocce, a pera.
A media altezza poi, sospesovi obliquo, appeso a dei cavi, un traliccio triangolare, tutto buchi, a simboleggiare il tetto della casa. La casa che appunto nel romanzo si chiamava Cime tempestose, e che ora è il luogo delle memorie: oggetti, talora forse voci. Più volte infatti, nei momenti clou, le musiche ed i rumori sembrano far incombere la casa come monito, parola, minaccia.
I due giovani – tornati sul luogo del tormento (apparentemente per pura curiosità) si aggirano, un po’ statici. In piedi, fronteggiandosi fermi o camminando; talora in ginocchio, a carezzare la polvere. In coppia o solitari, svanendo e riapparendo dal sipario di fondo.
E gli oggetti ritrovati fanno da gancio, da trucco grazie a cui far riemergere pezzi di memoria.
Il libro, che ricorda a Hareton quando lei gli insegnò a scrivere, ma che riapre anche la ferita del di lei iniziale disprezzo per lui (ti credevo un servo). Il violino, che suonava il padre di lui, ad aprire il discorso sul padre odiato. Le panche davanti al camino, su cui sedevano lui e Heathclif, ad aprire il tema del padre vicario (odiato da lei, persecutore di tutti, ma per Hareton, nonostante certe durezza, colui che lo salvava dal vero padre alcolista).
Due aspetti complementari di uno stesso trucco.
Dagli oggetti parte il confronto conflittuale sulle memorie. Ma servono anche come pretesto per raccontare indirettamente (a chi non avesse letto il romanzo) gli antefatti.
Un procedimento però un po’ lento e faticoso, tirato in lungo. E la recitazione dei due si trattiene su altalene di toni prevalentemente monotoni, con brevi picchi di conflitto, un po’ a freddo.
Lei accusa lui di essere troppo legato al passato. Lui lei di voler semplificare troppo.
Ma è lei a spiegare a lui la radice del dolore del padre (la madre di lui morta di parto).
Ed è lui a far vedere a lei il lato umano di Heathclif.
Una faticosa e parziale bonifica dei rancori, che sarà premessa alla libertà finale.
In mezzo le memorie giocose dei loro primi incontri da quindicenni, con derive in fantasie magiche (ricorrente la grotta delle fate).
E’ forse questo il registro più interessante, che con un salto un po’ incongruente di registro, ma stupefacente ed anche esilarante, esplode a tre quarti dello spettacolo, ad incendiare la monotonia – sia pur a tratti poetica – del confronto fin qui agitato.
Più abili nella giocosità circense da opera dei pupi, coi suoi gesti e toni forti, le gag comiche ed il registro sovracuto, i due attori si scatenano, e giocano in scena una controfavola, che riassume in sé – aprendone la conciliazione – il tema del loro amore, ma anche la redenzione del passato di Heathclif.
Lei è la principessa di un regno invaso (e una strega), e lui il cavaliere che la deve aiutare alla riconquista. Si innamorano combattono muoiono, in un mondo di draghi a magia. Ma lei prima di morire partorisce e gli affida un amato figlio della violenza. Lo si chiami Heathclif, come il padre. E lui, orfano dei due eroi, sarà adottato, per un futuro di felicità.
Poi dissolvenza. Realtà. Il risveglio, malinconico.
La favola può bastare ?
La radice del loro amore nella giocosità da ragazzi può bonificare la tragedia adulta, o sono irrimediabilmente avvelenati ?
Lui ancora teme le memorie, la casa. Lei propone di distruggerla, ma lui dice
che così distruggerebbero se stessi. E’ come lei gli addebitava, incardinato nel passato come radice inevadibile dell’identità.
La sua fantasia è di sprofondare nel pavimento, risucchiato in un sottosuolo di infiniti scheletri
“generazioni di uomini schiacciati da questa casa .. morti così’.
Lei propone magie d’infanzia, ma per lui
“bambini qui non ce ne sono più. Abbiamo persino paura a vederli i bambini”
Tuttavia entrambi sono animati dalla voglia di provare a voltar pagina.
Difficile mettersi nei panni dei genitori?
Ma anche noi agli altri come sembriamo?
Gli altri dicono che…
E segue un elenco di dicerie sui genitori e su di loro.
Per slittamenti e stupori, parlando insieme, ora mano nella mano, a destra, guardando il pubblico, alla fine arriva il salto, dopo un passaggio alla natura come continuità vitale e obblio.
“un’enorme distesa d’edera, che scende su tutta la collina, e arriva fin qui
a ricoprire ogni cosa […] Abbiamo già lasciato questa casa una volta .. l’edera
ha coperto le loro tombe, al cimitero .. cresce piano e nasconde tutto ..
strisciando per terra
Se la natura copre tutto, cancella e ricicla, siano anche loro natura.
/ Lui – Cime tempestose bruciamola, bruciamo tutto !! / LEI – Mi piacerebbe
passeggiandoci davanti dire, “Ecco la casa che ho bruciato” / LUI- Hai paura ?
/ LEI no .. / LUI … no …
Uno spettacolo con molte idee, diremmo, e momenti felici, ma discontinuo per linguaggio e ritmo.
Tuttavia, dopo la parentesi favolistica, anche loro due sono più convincenti e poetici nella recitazione, come invasi dalla malinconia del gioco perduto, e nella penombra che cala lieve sul lieto fine, esplode l’applauso.
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Cime tempestose, di Emily Brontë – Progetto di Martina Badiluzzi – regia e drammaturgia Martina Badiluzzi – con Arianna Pozzoli e Loris De Luna – dramaturgia Giorgia Buttarazzi – collaborazione alla drammaturgia Margherita Mauro – scene Rosita Vallefuoco – suono e musica Samuele Cestola – luci Fabrizio Cicero- drammaturgia del movimento Roberta Racis – produzione Cranpi, CSS Teatro stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Romaeuropa Festival, in corealizzazione con La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo – Teatro Vascello, Roma 19-20.10.2024