“Josefine, la cantante ovvero il popolo dei topi”, l’ultimo racconto firmato Franz Kafka, è una parodia sull’arte, vera o pretesa che essa sia, e la sua accettazione da parte del popolo che, in questo modo, crea i miti necessari a superare le proprie frustrazioni. Miti a cui Kafka attribuisce quelle qualità che mancano al grigiore di esistenze omologate e piatte, soprassedendo, per edificarli, ad evidenti barriere e limiti.
Non è importante chi abbia creato il mito, ma il mito stesso, assunto a ideale e faro nell’oscurità in cui versa la condizione umana.
Un messaggio profondo e trasposto con acume da Tamara Bartolini e Michele Baronio sul palcoscenico di Teatro India per Teatro di Roma. Spettacolo in cartellone fino a quest’oggi, domenica 20 febbraio.
Il testo, scritto da Bartolini, pone quesiti alle coscienze, scuote nel nome dei diritti e della libertà di espressione, politica e di genere. Un campo d’indagine che si sviluppa a partire dall’incontro con il testo, la lingua di Kafka e gli strumenti drammaturgici, performativi e di ricerca caratteristici della pratica artistica di un sodalizio, Bartolini/Baronio, che raccoglie riconoscimenti da molti anni.
Il lavoro, prodotto insieme a 369gradi e in collaborazione con Teatri di Vetro e Teatro del Lido di Ostia, ricerca e riporta suggestioni su una serie di temi contingenti: il popolo, la cittadinanza, l’infanzia, i dispositivi di creazione di comunità e di cura del presente/futuro, le possibilità che vengono aperte dalla relazione tra io e tu, tra gli altri, cosa e chi siano pubblico e artista nella dimensione sia performativa che sociale.
“Tra tutti i topi – scrisse nel 1923 un Kafka ormai divorato dalla tubercolosi – Josefine è l’unica a cantare e, quando lo fa, ogni animale si ferma ad ascoltare. In realtà Josephine, convinta di cantare, semplicemente fischia, come tutti gli altri topi, anzi, forse persino peggio, ma solo lei, forse perchè matta o arrogante, folle o geniale, si separa dalla miseria, consacrando tutta sè stessa al suo flebile canto indisponente. Il suo allora diventa un fischio che scioglie le catene del quotidiano e consente al popolo dei topi un’esperienza liberata dalla fatica del sudore del pane e della sopravvivenza. Non importa che sia una topolina arrogante, faccia le scene, crei persino pericoli per i suoi simili“….
Il canto di Josefine evoca un popolo – impersonato da Baronio – che, in un tempo di estasi e grazia, dimentica sé stesso e si raccoglie attorno all’artista, alla gioia infantile del gioco. Nello spazio scenico il suo canto, atto taumaturgico, attraversa dimensioni temporali storiche e biografiche e diventa parte di noi, risuona e rigenera. Il corpo è in ascolto di questa frequenza e diventa archivio di immagini collettive in cui la figura di Josefine sembra moltiplicarsi in storie di corpi martirizzati dagli effetti della crisi etica, esistenziale, economica, sociale del presente. Voci in cui ritroviamo le sensibilità di gesti che hanno spostato la percezione collettiva e hanno fatto compiere scatti irreversibili alla storia. Josefine prende quei gesti e li fa diventare segno, ripercorre le nostre biografie e di quelli che abbiamo incontrato, crea un controcanto della storia umana con quel fischio flebile in cui “c’è qualcosa della nostra felicità perduta”, scrive Kafka, qualcosa che “libera anche noi dalle catene della vita quotidiana”, anche se per breve tempo. Sulla scena resta il corpo dell’attore a contenere tutte queste voci, il corpo che non può fare a meno di cantare.
«Quella creatura delicata […] è come se avesse concentrato ogni sua forza nel canto – di nuovo l’autore boemo – come se tutto ciò che non serve al suo canto fosse privato di ogni energia, quasi di ogni possibilità di vita, come se lei fosse spogliata, esposta, affidata solo alla protezione di spiriti buoni, come se un alito di vento freddo potesse ucciderla passandole accanto mentre lei, sottratta a se stessa, dimora nel canto.»
Josefine è una bambina. Ovvero un corpo che raccoglie simbolicamente la cronaca costellata di violenza sulle donne, una volta bambine, mortificate e zittite dai loro carnefici in una dinamica di potere feroce che gioca sul piano della forza fisica e s’innesta in una deviata conformazione familiare patriarcale. Le proiezioni audiovisive che accompagnano la messa in scena creano un ponte tra Josefine e la voce della marea femminista ed ecologista, unica forza politica reale attuale, d’opposizione alla deriva totalitaria e altro-fobica, ovvero la possibilità di creazione libera di una nuova coscienza globale che trattenga al suo interno le differenze, il cambiamento, e che si confronti con i problemi reali del Pianeta. Una voce che è sostenuta e sostiene le scoperte in campo neuroscientifico e le strategie alternative di educazione. L’emozione che si prova quando si gioca non ha genere, il gioco (del bambino creatore) è quindi la possibilità di ripetere l’origine, di creare nuovi mondi così come fa l’artista. Josefine indica con il suo sibilo un movimento che ha a che fare con il ripetere eternamente l’inizio, con la potenza e non col il potere, un corpo libero e non più “liberato”, festante, inquieto e creatore di mondi alternativi.