Arrivo alla lettura di Jon Fosse di recente e in maniera fortuita: sono settimane topiche in cui il pensiero del morire pervade (per ragioni di studio) ogni momento della giornata; sono settimane quelle in cui – come a volte capita – tutto torna e sembra quasi esserci una ricorsività tra evento e pensiero. E mi addentro in quella lettura per un caso – come forse capiterà a molti dopo questa vittoria epocale del Premio Nobel per la Letteratura. Mi affaccio così, a strapiombo, alle porte di un amore abissale, scoprendo letture per me prima ignote, sconcertata per il fatto di non essermi interessata prima a un autore senza pari nel panorama contemporaneo; autore arrivato anni fa in Italia grazie anche alle curatele di Franco Perrelli dedicate al drammaturgo norvegese, di cui è anche magnifico traduttore (tra cui imprescindibile rimane Saggi gnostici edito da Cue Press)o alla preziosissima e struggente intervista rilasciata a Rodolfo Di Giammarco.
Lo dico come fosse una confessione: di quel momento di assoluta frenesia non rimangono che stralci e appunti mentali, per questo senza troppe pretese espongo la mia ipotesi, facendo ciò che sempre meno sento – forse sentiamo – di essere liberi di poter fare: condivido un pensiero, un’idea abbozzata e non definitiva (abitudine raramente in uso, peraltro, soprattutto fra quelle cerchie di intellettuali composte quasi sempre da uomini – femministi s’intende! – che adorano fare la morale ai propri lettori il minuto dopo che qualcosa di importante è accaduto).
Perché con Fosse noi ci addentriamo nell’alveo di una forza drammatica e inattuale sprigionatasi in opposizione ai dettami della postmodernità, un paesaggio esistenziale, del radicalmente altro, dove il teatro non può che configurarsi come un’attività solitaria, in cui il silenzio tra un periodo e l’altro, tra un segno di interpunzione e l’altro, ispira il suo stesso incedere circospetto. Con Fosse e insieme ai suoi personaggi senza nome, entriamo in un mondo ibrido, che sta allo stesso tempo nell’al di là e nell’al di qua. Un modo di narrare il reale e portarlo in scena che incespica di fronte alla pretesa umana di senso e che, proprio per questo, coincide con il muoversi stesso del pensiero, allorché si trova proteso in direzione di una trascendenza. Al punto che quell’origine così afasica, la prosa paratattica e – diciamolo – letteralmente scabrosa per cui morte, vita ed eros finiscono per mescolarsi senza alcuna avvisaglia e senza paura; ecco, quell’origine credo sia da rintracciare in una tradizione lontana e ancora tutta da studiare.
Intendo quindi soltanto abbozzare qui l’ipotesi di una linea di continuità sotterranea tra lo stile fossiano e quello della confessio, in particolare di matrice agostiniana, colpevolmente lasciata da parte non tanto dagli studi teatrali, dove ci si occupa da anni dell’autore, quanto da quelli in cui il teatro è ancora oggi inteso come una pratica minore e spuria, ad esempio negli studi di estetica e, in particolare, di storia dell’estetica.
Se ci si rivolge, per un attimo, al versante della tradizione drammaturgica del secolo scorso si noterà senza troppe difficoltà come la forma paratattica appaia del tutto dominante. Una linea questa che, come testimoniato dall’ingente adozione di tale registro nella prolifica produzione britannica contemporanea, non sembra ancora destinata a esaurirsi e che, soprattutto in quegli autori in cui lo stile paratattico è più esasperato – come nel caso di Fosse, in cui l’afasia esistenziale dei personaggi supera, e non di rado, persino quella della più tarda produzione beckettiana -, si dà come una forma di resistenza di fronte alla perdita contemporanea del senso.
Un esempio su tutti appare la prima scena di Sogno d’autunno, in cui la paratassi esercita un ruolo essenziale nel contesto della complessiva poetica del drammaturgo norvegese, che si fa erede ultimo e, in un certo senso, compiutamente nichilista della sanguinaria drammaturgia ibseniana. Fosse sostituisce in maniera assai emblematica, infatti, l’afasia paratattica alla confessio, in quanto segno più evidente non soltanto della perdita della possibilità di raggiungimento di una verità stabile e definitiva ma, ancor più emblematicamente, (soprattutto se visto a confronto con il contesto agostiniano del Libro VI delle Confessioni) della possibilità dell’incontro, in questo caso, tra un Uomo e una Donna che si svolge, non a caso, nell’aurorale paesaggio di un cimitero nordeuropeo.
Un pensiero quello di Fosse in cui, la visione e il rapporto con il corpo dell’attore sulla scena si configurano come ciò che viene ‘in soccorso’ di quel “testo bucato” che è il dramma. Nella brusca interruzione tra un’immagine e l’altra, tipica della paratassi, sta un pensiero che, anziché articolarsi aprioristicamente nella sua espressione più compiuta e complessa, vive di una specificazione progressiva, ovvero di un procedimento per accumulazione.
Quello del teatro come dramma rimane per questo sempre uno spazio della contraddizione e del paradosso, e non soltanto perché a convivere problematicamente al suo interno sono la verità e la sua copia rappresentata sulla scena, bensì perché in esso la visione non si dà come un movimento di ricerca nelle cose stesse, bensì di introiettamento della verità che, però, al contempo ha sempre l’urgenza e la pretesa di essere condivisa con l’altro. Contraddittorietà che non può, quindi, che animare l’afasia con cui la parola, prima ancora di essere proferita, è pensata — basti pensare alle criptiche risposte di Gesù di fronte all’accusa di essere il re dei Giudei — e che testimonia lo iato esistente tra l’io e il Tu, in un modo tanto potente da umiliare lo spettatore e avvicinarlo a colui che, più di tutti, è chiamato a mostrare la sua debolezza.
Immagine di copertina: Fonte Wikipedia