Così si potrebbe definire il percorso espositivo di scena a Palazzo Bonaparte su uno dei più rivoluzionari scultori del nostro tempo, Jacopo Cardillo, in arte Jago. Prima esposizione per l’artista classe ’87, dal grande seguito sui social e soprattutto capace di mostrare, grazie alle sue dirette “work in progress”, il processo empirico della creazione artistica, che ha le proprie radici nella cultura americana (esperienza della quale Jago ha certamente fatto tesoro nei suoi soggiorni statunitensi) da Jackson Pollock in poi.
Dal 12 marzo al 3 luglio si potrà assistere ad un viaggio culturale attraverso le opere più rappresentative dell’artista frusinate, partendo cronologicamente dai suoi primi lavori giovanili che hanno per oggetto l’indagine sulla natura come essa stessa scultrice del mondo (Containers, 2015), attraverso il perpetuo lavorio di acqua ed agenti atmosferici sulle grandi pietre di scarto che il giovane Jago era solito raccogliere sul fiume Greto in Toscana.
L’artista riceve quindi il testimone della natura
plasmatrice, intervenendo letteralmente attraverso la materia con la penetrante mano dell’artista (La Pelle Dentro, 2010), per poi indagare le sfaccettature al suo interno come nelle opere Sphynx e Memoria di sé, entrambe del 2015. Nel 2017 arriva a compimento l’analisi dell’interiorità dell’essere umano con Apparato Circolatorio: un solo battito cardiaco tradotto in forma d’arte in una serie di 30 riproduzioni in sequenza del cuore, accompagnata da un video in loop della loro contrazione.
Una delle prime persone a credere nel giovane scultore è stata la critica d’arte Maria Teresa Benedetti che lo consiglia al selezionatore della 54esima Biennale di Venezia, Vittorio Sgarbi: Jago esporrà Habemus Papam (2009), un busto di papa Benedetto XVI. È proprio in quest’opera che si mostra la genialità dell’artista che riprende in mano l’opera nel 2016, dopo la storica abdicazione, spogliando il papa delle vesti ufficiali, e presentandoci, con titolo cambiato in Habemus Hominem, Joseph Ratzinger uomo con un sorriso ammiccante e uno sguardo profondo costruito su due livelli, affinché possa osservare chiunque nella stanza, richiamando le peculiarità della Gioconda di Leonardo.
In un videoclip della mostra, Maria Teresa Benedetti definisce Jago “un artista che sente il legame con la storia, ma che rimane un uomo del suo tempo”, ed è così che nascono opere come Excalibur (2016), in cui un kalashnikov piantato nella pietra richiama, in chiave contemporanea, la celebre spada nella roccia delle leggende medievali, talvolta lanciando un invito, quanto mai attuale, a lasciare che quello strumento di morte rimanga conficcato in eterno, senza possibilità d’esser utilizzato.
Con il passare degli anni, il baricentro dell’analisi dell’artista si sposta sempre di più verso l’essere umano, dunque nascono opere come Venere (2018) in versione senile, collocata in una sala di specchi che moltiplicano la sua eterna bellezza in infinite riproduzioni, ed il Figlio Velato (2019), rilettura in chiave infantile del celebre “Cristo Velato” di Giuseppe Sanmartino.
Quel che Jago fa emergere attraverso il marmo, è la sua estrema sensibilità alle tematiche umanitarie: il caso della Pietà (2021) è emblematico non solo per quel che riguarda il suo legame con i grandi modelli del passato, Michelangelo in primis, ma per il suo ruolo di artista socialmente attivo, in grado di produrre un’originale Pietà con un padre distrutto dal dolore a sorreggere suo figlio dalle fattezze già angeliche, avendo come punto di riferimento l’immagine di un padre di Aleppo nell’atto di compiangere il figlio morto.
Il percorso espositivo si avvia al finale con First Baby (2019), una statuetta di circa 200 grammi di un neonato in posizione fetale che ha il primato d’esser la prima scultura in marmo a gravitare nello spazio sotto la custodia dell’ astronauta Luca Parmitano. La mostra si conclude quindi partendo da dove tutto ebbe inizio, in un chiaro riferimento alla filosofia del capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio.
Per quanto riguarda la produzione ma soprattutto l’organizzazione della mostra bisogna fare gli onori ad Arthemisia per la capacità di valorizzare le opere attraverso una geniale illuminazione perpendicolare ed una perfetta scelta degli ambienti.