Io non sono più tanto mia

La confessione di una terapeuta coinvolta in una complessa perizia legale al Vascello di Roma

Di chi è la responsabilità? La domanda risuona dall’inizio alla fine della rappresentazione che vede una terapeuta dotata di aplombe anglosassone, ma con evidenti incrinature emozionali che la situazione induce. Disarmata di fronte allo scarso funzionamento dello yoga nella cura dell’anima, confusa sul suo ruolo verso i pazienti, che sembrano ormai lontani dall’impegno verso la felicità, a malapena rivolti a funzionare dentro lo stesso sistema, lo stesso ritmo, che li rende infelici al punto di cercare una terapia che forse non sanno realmente accogliere.

C’è di mezzo una madre debole, una bambina prepotente, ma fondamentalmente sedotta da un’estetica sociale fatta di “Spa parties” e red carpets di palloncini, sedotta dalle riviste di moda, che non distingue forse da quelle scandalistiche. Quei luoghi che vendono perché evocano sesso, inducendo un immaginario di deformazione estetica che rappresenta una più pericolosa deformità sociale.

In questa giungla, sullo sfondo di un albero secco e rovesciato, forse come la sua iniziale vocazione, la donna interpretata da Lucia Mascino alterna qualche telefonata che rivela il suo personale stato di salute, con un racconto che si muove a sua detta solo “a un pelo della norma”, quella norma anormale di per sé, che assassina a sangue freddo l’innocenza infantile, portandola a competere con una virtualità femminile che sembra la direzione imperante verso la rassicurazione paradossale del maschio spaventato; quello che non rifugge la violenza, cincischia nel dark web, verso il quale le comprensioni e le giustificazioni sconfinano con pericolosa ambiguità. 

Cosa c’entrino il Brasile, i tribunali, i reggiseni eccessivi, i capricci pericolosi, non è dato rivelare in questa sede. La storia potrebbe appartenere ai giornali di serie B che non affollano più nemmeno i parrucchieri, eppure potrebbe essere narrata con immediatezza in uno dei tanti programmi televisivi che creano inquietanti picchi di share. Una sorta di soap opera horror, dotata di opportuni cliffhangers, che parte in sordina e piano piano sprofonda lo spettatore in un grottesco così vicino alla cronaca dei nostri giorni da rendere l’invenzione mostruosa materia da racconto della porta accanto.

Chi è dunque responsabile? La mamma quasi psichiatrica, il sistema, le riviste di moda, la virtualità, i soldi, il sesso proposto ai ragazzini, il dark web, le case famiglia? 

Il racconto stratificato espone, non giudica, il giudizio è implicito nella narrazione stessa, fa freddo in sala, malgrado l’evidente apprezzamento del pubblico, coerentemente con il tono scarno e anglosassone del tutto: recitazione, regia, scena, testo di partenza, traduzione. 

Glaciale, opportuno, confezionato da professioniste di livello indiscutibile. 

Una punta d’invenzione in più avrebbe forse giovato all’originalità d’insieme.

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Il Sen(n)o di: Monica Dolan – tratto da: The B*easts – drammaturgia: Traduzione di Monica Capuani – Con : Lucia Mascino – regia: Serena Sinigaglia – Teatro Vascello 4 novembre 2024