Scene da una maternità disfunzionale. Uno spettacolo dalla estetica à la Wong Kar-wai, con temperature almodovariane, ozpetekiane, sopra le righe. Ove il simbolo grotoskiano, nella sua idea di teatro povero, diviene vivo, potente. La messa in scena non lascia indifferenti.
È la miniatura di una casa di bambole, prima vista, ma che di bamboleggiante non ha nulla: il ritratto in movimento di due donne abitate da un inferno interiore, un drago a tre teste che le divora. Se Elia Kazan è l’ispirazione, o Richard Brooks, c’è anche molto Hitchcock nella forza disturbante di certe scene, il tormento, il cieco abbandono decadente al peccato e alla dannazione, come di chi si solletichi una piaga purulenta in pieno volto – così, verso la metà, risuona lo strepito atroce della madre, l’abilissima Donatella Busini, che avanza tra il pubblico.
Direbbe Thomas Bernhard, “noi esseri umani siamo una schiera di mutilati, chi esteriormente, chi interiormente.”
Lo spettatore risulta scosso in una potenza catartica trasfondente, soverchia, traghettato in medias res, nel vivo dell’azione. Lo spazio scenico è nitido e puntuale, rievoca atmosfere oniriche rarefatte, quasi un bozzetto di Magritte, una fictio à la Buñuel, poi prende fiato e si lascia abitare dalle due donne che sembrano una l’alter ego dell’altra, in una simbiosi sadico perversa.
Una tragedia familiare, incombente, sullo sfondo. Due parole sulla trama. Elena, la figlia malata (Ornella Lorenzano) torna a casa da un ospedale psichiatrico; spaventata, emotivissima, nevrotica, suggestionata. Sarà poi ancora una volta bistrattata, ignorata, delusa. La madre la guarda senza nemmeno vederla, le sbraita contro. Ulula, abbaia. Le due si parlano addosso. Che è la donna, come molte madri moderne “non vuole rotture di palle” – sic, nel testo – ne una vita che ruoti solo attorno a quella della figlia. Parafrasando, questo è il vero problema: sua figlia non le basta per sentirsi “piena di amore” . È “una donna di mezza età che vuole godersi la vita”; si dimena, si esibisce, Nevrotica, sgangherata, fa di tutto per sembrare più giovane e darsi alla movida, si infila in abiti ridicoli da femme fatale; combatte strenuamente contro un corpo che invecchia e le sfiorisce addosso, alla costante ricerca di un uomo, come se le donne non potessero essere definite fuorché dal genere o dalla presenza (o assenza) di un maschio nelle loro vite.
Evidente la critica al retaggio cattolico, a questa visione dei rapporti e del femminino, ma anche del diverso. Un retaggio che spezza le ali, e riduce la femminilità alla scissione manichea tra sante e peccatrici. Come se tutto si riducesse all’opposizione irriducibile, incomunicabile tra due categorie: da un lato le giovani castigate, asessuate, sagge ancorché fuori dal mondo, dall’altro le donne lascive, laide, lubriche, preda delle pulsioni, finanche poco intelligenti. Con un trait d’union: ambedue non sanno vivere. O sono forse proiezione di qualcun altro? L’Italia è ancora un paese retrogrado, oscurantista, la tradizione della commedia all’italiana, ahinoi, pare moderna e distante anni luce, e simili miopie, simili storture nell’ osservare il genere femminile, più che etichette che ci affibbiano, sono piaghe sociali che non ci permettono di vivere ed esprimerci liberamente come farebbe un uomo, con un senso della globalità complesso e differente da quello maschile o lgbt. La scena incalza, claustrofobica. Cosa accadrà tra le mura domestiche?
Giorni che si susseguono in scontri continui madre – figlia. La potenza della opposizione tra le due, bilanciata dalla voce dell’amica immaginaria di Elena, Blanche, che sembra condurle come un grillo parlante sulla retta via, si palesa particolarmente funzionale, allorché entrambe salgono sul cubo e si mettono alla prova come attrici. Saggiando le reciproche sensibilità: la madre sembra una “vedova allegra”, istrionica, nevrastenica. La figlia, sempre fanciullesca e patetica, il che la rende a tratti risibile, è in preda ad un delirio lucido. Rimprovera severa alla madre la vocazione simulatoria e l’egocentrismo. Almeno in apparenza.
Eppure dove finisce l’una, comincia l’altra ed è arduo tracciare un confine. La mania di protagonismo è la medesima. Non riusciamo a comprendere chi sia realmente vittima e chi carnefice. Ed il finale, allegorico, impraticabile nella realtà, non lascia scampo a più profonde interpretazioni. Siamo tutti rotti spezzati soli; possiamo esser soli insieme e cercare rifugio in un altrove. Se gli scontri appaiono sanguigni, feroci, a tratti triviali, certamente prosaici, anche tragicomici, la pièce nella sua globalità somiglia al viaggio onirico in una notte che non termina mai. Meglio, il viaggio al termine di un incubo, quello della figlia, con le due protagoniste che paiono l’archetipo estremizzato sino al grottesco, all’iper realistico, lungi dai ranghi del naturalismo. Sono sospinte all’eccesso per rimandarne indietro una immagine d’impatto, col risultato tuttavia che anziché rendere una l’agnello sacrificale e l’altra il lupo, entrambe sono vittime di se stesse. La madre, isterica affamata d’amore, è vittima di se stessa, della mitomania, della megalomania, dei deliquii del corpo; la figlia, una saggia quasi asessuata che pratica la gentilezza e il distacco dalle cose mondane, è una vittima della malattia, dello scarto delle proprie sinapsi, dei propri deliri. Vittime sopra ogni altra cosa della solitudine contemporanea.
Sono le controindicazioni del tanto bramato incanto, del romanticismo a la Tennessee Williams. Un testo forte, sentito. Una recitazione senza filtri. Lo spazio scenico è ritagliato nella luce (a cura di Francesco Barbera) e nei diversi ambienti: la madre che si muove convulsamente tra il vestibolo, la cabina armadio con le parrucche eccentriche ed i molti abiti (di Emanuele Zito e Claudio Giovannelli), quasi un moto en travesti col quale la donna sfugge a se stessa, “camuffandosi un po'”, come recita il testo. Il triste giaciglio della figlia. La toletta dall’ allure vintage, dove la donna si imbelletta e la figlia, sorpresa a giocare a fare l’adulta, viene redarguita e castrata. Costretta a tenere i capelli, che nell’immaginario inconscio collettivo simboleggiano la relazione con tutto ciò che è terreno e pulsionale, nascosti nella cuffia, mentre lei stessa li occulta nei continui cambi di parrucca e solo nel finale li lascia fluire liberi, “sporchi”, dice Elena.
Gli spazi, le coloriture nella recitazione e le temperature emotive sono orchestrati con una cura ed una intenzione puntuale, rigorosa, grotowskyana, in ossequio all’idea di un teatro povero, denso di simboli significativi in se stessi. Che è poi Elena, questa figlia usignolo isterica e capricciosa, e questa madre-matrigna, anaffettiva, egomane, che si sente una diva del cinema e passa la vita a chattare con sconosciuti ed approfittatori , sono i due volti di un medesimo prisma, le due metà della mela, due segmenti dello stesso sogno, freudianamente; a far da contrappunto con la sua saggezza e la costante presenza è la bambola di pezza, emmadantiana, ma anche della amica immaginaria, nel nome di Blanche – evidenti i riferimenti a Tennessee Williams, ed in termini registici scenici e drammaturgici l’ispirazione più che A streetcar named desire, sembra essere “The Glass Menagerie.
Io ed elena merita di essere visto non foss’altro per la profusione di energie da parte delle attrici, l’emersione del prezioso materiale emotivo e drammaturgico di Donatella Busini, la sapienza tecnica e registica di Toscanelli. L’opposizione lacerante, costante tra i due poli, turba nel profondo chi guarda e trova una eco nella sapiente drammaturgia musicale, anch’essa curata dal Toscanelli.
E, a parere di chi scrive, invita il genere femminile tutto, che spesso è il peggior nemico di se stesso, ad una riflessione seria e costruttiva. Che si travalichino i limiti e i cliché imposti dalla società, cui noi stesse sovente per insicurezza o insipienza ci condanniamo. Che le donne addivengano finalmente ad una femminilità risolta, equilibrata, paga di sè. Una femminilità “naturale”, forte della sua intelligenza emotiva, della naturale propensione all’ etica della cura, per dirla con Martha Nussbaum.
Una femminilità che si faccia coraggiosa, forte del suo essere diversa dalla mascolinità; che basti a se stessa, senza doversi definire in assenza o in presenza del “sesso forte”, e nemmeno in funzione della maternità o in ossequio ad un ruolo. Le madri certamente rivestono un ruolo centrale nell’educazione delle figlie e questo, se mal incanalato, cagiona danni irreversibili.
“Io ed Elena” di Donatella Busini – regia di Mauro Toscanelli
con Donatella Busini e Ornella Lorenzano – Drammaturgia Musicale Mauro Toscanelli
Luci Francesco Barbera – Scene Mauro Toscanelli – Costumi Emanuele Zito e Claudio Giovannelli – Aiuto Regía Francesco Maggi. Al teatro Trastevere fino al 14 maggio