Intervista ad Alessandro Paschitto, vincitore del premio Leo De Berardinis

Lo scorso 22 febbraio il Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, ha reso noti i vincitori del premio Leo De Berardinis per artisti e compagnie della Campania under 35. Si tratta di Caini della compagnia I pesci, Occidente del collettivo Be Stand e ( )pera didascalica di Alessandro Paschitto autore della drammaturgia e della regia che è anche in scena con Raimonda Maraviglia e Francesco Roccasecca.

Alessandro Paschitto ci racconta il suo percorso e il lavoro che c’è dietro ( )pera didascalica. Lo spettacolo ha vinto anche il bando nazionale Call from the aisle 2020 e ha ricevuto una menzione speciale alla Borsa Teatrale Anna Pancirolli 2020. Il progetto ha inoltre il sostegno di C.U.R.A. Centro Umbro di Residenze Artistiche e di Micro Teatro Terra Marique, Corsia Of – Centro di Creazione Contemporanea.

Come hai iniziato a occuparti di teatro, qual è la tua storia?

Ho cominciato per caso, a scuola. Fino a diciott’anni ho lavorato insieme a Pina Di Gennaro, regista e pedagoga napoletana, del Teatro dell’anima. Al tempo felicemente trascuravo le distinzioni tra lo stare in scena e il comporre da occhio esterno. Poi sono approdato al Teatro Elicantropo, dove mi sono diplomato come attore, e alla scuola di mimo corporeo di Michele Monetta. Massimo Maraviglia, con cui ho poi iniziato a studiare drammaturgia, era uno dei miei insegnanti all’Elicantropo. Nel 2018 ho fatto l’esperienza della Biennale di Venezia, ero tra gli autori selezionati per il workshop del College Teatro. Sono infine approdato alla Paolo Grassi dove attualmente studio Regia, al terzo anno. Ad oggi sono un felice impasto di queste esperienze.

Di tutti i ruoli che ti sei trovato a ricoprire con quale di questi ti rivedi?

Mi sento più a mio agio con la parola “autore”, che non relega necessariamente alla sola funzione dello scrivere un testo, ma si estende anche colui che lavora a un concept o esercita una prassi di composizione. Mi sembra più onesto presentarmi come un autore. Dopotutto, fino ad oggi ho scritto e messo in scena lavori miei (o comunque rielaborati da me). Quest’anno per la prima volta farò la regia di un testo altrui per la mia esercitazione di regia in Paolo Grassi. Lavorerò su Antonio e Cleopatra di Tiago Rodrigues, che a sua volta ha riscritto il testo di Shakespeare.

A quali autori ti ispiri di solito?

Massimo (Maraviglia) è uno degli autori viventi che ho amato moltissimo. Di recente poi ho sviluppato una grande passione per la drammaturgia anglosassone, penso ai lavori più sperimentali di Caryl Churchill e di Martin Crimp. Vado sinceramente matto per la scrittura, non solo teatrale, di Peter Handke.
Il che non significa necessariamente pensare di metterli in scena. Ma sono puro ossigeno. Fanno venire voglia di mettere penna su carta (o dito su tastiera). Ci sono testi loro, ampiamente post-drammatici, in cui la relazione tra forma e contenuto, oltre a essere incredibilmente profonda, raggiunge soglie elevatissime di destrutturazione. Come molti, sono poi affascinato dal discorso di Romeo Castellucci, da alcuni aspetti del lavoro di Deflorian / Tagliarini.

Con Paschitto per questa conversazione sul teatro e su ( )pera didascalica c’è anche l’attrice Raimonda Maraviglia, in scena con lui e con Francesco Roccasecca.

Vorrei arrivare a ( )pera didascalica passando per il tuo rapporto con Raimonda Maraviglia. Come vi siete incontrati, come lavorate, quali altri testi sono stati oggetto del vostro lavoro?

Raimonda Maraviglia: La disgrazia è avvenuta in modo casuale (Ride, ndr). Io e Alessandro eravamo entrambi allievi presso il laboratorio di mio padre e anch’io avevo frequentato la scuola di mimo di Monetta. Era il 2018, Alessandro mi cercò per un lavoro su un suo testo, Pulcinella morto e risorto. Disse che c’era un ruolo che avrebbe avuto piacere fossi io a portare in scena. Alla fine erano dieci, i ruoli (Ride, ndr) Il lavoro, che era stato premiato come testo di nuova drammaturgia e abbiamo portato in scena a Roma al Teatro India al festival Dominio Pubblico, combinava classico e contemporaneo, realismo e lavoro di maschera. Il testo toccava a mio avviso molti nervi scoperti del vivere contemporaneo oltre a essere uno spaccato generazionale che andava a evidenziare una condizione di inadeguatezza profonda. Mi piacque moltissimo, gli raccontai tutto quanto ci avessi letto dentro. Lui mi rispose “Ah, sì?”. Fa sempre così. Sembra quasi che per lui questi testi non vogliano dire nulla! (Ride, ndr) Poi è arrivato ( )pera Didascalica, un testo completamente agli antipodi rispetto al precedente e che ha richiesto un approccio radicalmente diverso. Abbiamo dovuto ripensare completamente il nostro modo di stare in scena. Molto più che fare semplicemente l’attrice in uno spettacolo. Si trattava di una vera e propria ricerca, un lavoro di squadra, in cui la sala prove è sede di verifica continua.

Alessandro Paschitto: Il mio primo cimento con la regia fu nel 2016. Vinsi un premio di produzione al Teatro TRAM di Napoli e mi ero proposto di lavorare su I due gentiluomini di Verona di Shakespeare, un testo che a mio avviso serbava fertilissime latenze. Lo riscrissi con il titolo di 2×2 Gentiluomini facendo del concetto di geometria delle passioni il centro vitale del lavoro. Anche le scelte di design erano minimali: la scena era composta da quattro solidi geometrici, opposti per cromatismo, come pure costumi e oggetti. Ma senza intellettualismi. Tutto molto immediato. Al tempo credo fosse quanto possibile per chi si sia formato nell’alveo di un teatro di rappresentazione che almeno a Napoli va per la maggiore. Trovo molto indicativo che per cercare innovazioni nella drammaturgia contemporanea noi si debba leggere autori stranieri, alcuni over 70 (se penso ancora ai lavori della Churchill dopo il 2000)

Quindi nel tuo caso si potrebbe parlare di sperimentazione?

Per noi è una ricerca. Nel senso: non sapevamo a monte dove si sarebbe arrivati. Se sia nuovo chissà. Una persona cara mi ricorda sempre questa idea un po’ rinascimentale: non ci sono opere nuove, ma solo nuove sintesi. Quel che noi proviamo a fare in scena comincia dove il lavoro di altri si è interrotto e prosegue per arrivare altrove. Se i nostri punti di partenza sono riconoscibili, buon per noi. La questione interessante è che, usciti dalla forma canonica, ossia l’architettura drammatica millenaria da Aristotele al modello americano, chi scrive ha l’onere di inventarsi anche una forma di volta in volta. Si entra in un territorio molto meno esplorato, in cui ci sono più esempi che mappe. Ma è un lavoro pago, il pubblico risponde, si sente contattato veramente.

Raimonda Maraviglia: Non è più nemmeno questione di fare uno spettacolo che sia bello. ( )pera Didascalica non è qualcosa di cui dici: “Ah, che bello spettacolo!”. È qualcos’altro, difficile da definire esattamente, ha proprio una diversa consistenza. Io sentivo il bisogno come trentenne e come attrice di raccontare anche questo disagio nell’interpretare un personaggio. Intendiamoci: è qualcosa che insegno anche, e penso che il lavoro sul personaggio sia una tappa fondamentale per la pedagogia d’attore. Ci sono stati maestri, alcuni dei quali amo profondamente, che hanno inventato mille e mille metodi mettere l’attore in condizione di attingere al profondo. Tutto quello che si poteva estrarre, credo sia stato estratto. Sento che non c’è rimasto più niente. Solo il vuoto che ci hanno lasciato dentro. Questo vuoto è ora il nostro principale strumento. Questo trivellare senza sosta per attingere a chissà che risorsa ulteriore in una continua ansia prestazionale è la degna rappresentazione di questo periodo storico, prima ancora che della pratica teatrale. Alessandro ha preso tutto questo e me lo ha tolto di dosso. Finalmente mi sono detta: “Ecco, è questo ciò che vorrei dire”. Che sono io, con il mio corpo e la mia voce. E questi sono i miei strumenti di racconto.

Alessandro Paschitto: Per dirla in un modo più semplice: non si tratta di mostrare qualche cosa, ma di lasciare il posto vuoto. Dove ci si aspettava qualcosa non si troverà nulla. Da un lato perché ora che proprio tutto è stato detto e mostrato, ci sembra la sola mossa possibile e sensata. Dall’altro per rendere lo sguardo consapevole di questo suo meccanismo coattivo e godereccio. Noi non abbiamo neppure lontanamente l’ambizione di riuscire a soddisfare la sua bulimia. Semmai il suo desiderio. Lo invitiamo a proiettare ciò che desidera vedere. Lo spettatore non è più colui che guarda, ma colui che è guardato. E noi siamo quindi più degli accompagnatori dello sguardo che degli esecutori di qualcosa. Il pubblico diventa pian piano il vero autore di ciò che accade sulla scena. La drammaturgia testuale si fa meccanismo di canalizzazione, un binario. Cosa viaggi su di esso e dove sia diretto non sta a noi decidere.

Il pubblico quindi ha una parte molto attiva nella messa in scena, è un attore.

Raimonda Maraviglia: Alla fine la scena resta vuota e la domanda è: che cosa avete visto? Per questo non esiste una trama definita, ogni volta accade qualcosa di diverso.

Alessandro Paschitto: ( )pera didascalica principia con un topos classico. Si dichiara fin da subito che non ci sarà uno spettacolo. Niente di nuovo, anche il discorso di Antonio nel Giulio Cesare shakespeariano comincia con “Non farò un discorso”. Non si tratta tuttavia di teatro epico, mancando una specifica narrazione da cui prendere le distanze, né di metateatro. Non recitiamo degli attori incapaci di rappresentare uno spettacolo. Noi non facciamo proprio nulla. Siamo noi e stiamo lì. Didascalici, per l’appunto. Ogni tentativo di agire si rivela subito impraticabile, insufficiente, paradossale. L’incapacità di rappresentare diventa immagine di un’altra incapacità: quella di vivere.

Ricorda un po’ la teoria del personaggio puro, fa pensare tanto al discorso della super marionetta di Edward Gordon Craig. Poiché l’attore è una persona, la sua personalità, il suo carattere necessariamente si va a scontrare con la personalità del personaggio. Una versione 2.0 di quel ragionamento perché si mette a nudo completamente la messa in scena.

Alessandro Paschitto: C’è una visione in cui il testo, l’ideazione è, per così dire, la scusa necessaria, lo strumento che fa emergere l’umano dal corpo dell’attore. La tradizione terzoteatrista, ad esempio, adopera il materiale di partenza come un bisturi (credo sia un’immagine usata proprio da Grotowski) e lo spettatore assume funzione testimoniale. Nel nostro caso l’azione non è più una palla che ci si passa sulla scena. Noi facciamo un’azione sullo sguardo di chi osserva. Non gli proponiamo un’identificazione a un qualcosa di preconfezionato.

Raimonda Maraviglia: Noi suggeriamo di vivere il vuoto. Una parte dello spettacolo è proprio la presa di coscienza del vuoto. Anche come metafora psicoterapeutica.

Nel processo creativo prima di Francesco Roccasecca c’è stato Mario Autore, un collega attore che ha lavorato a tutta la fase di composizione

Alessandro Paschitto: Mario è mio amico dai tempi della scuola. Prima che un ottimo collega, è una persona di famiglia. Questo progetto è nato anche insieme a lui e in qualche modo continua a esserne parte. Francesco invece è un attore che conoscevo e stimavo avendolo visto al lavoro e con cui abbiamo finalmente l’occasione di iniziare una conoscenza più ravvicinata.

Il discorso portato avanti da Paschitto e Maraviglia sfocia in un discorso sulla presenza dell’umano oggi, sull’attenzione verso l’essere umano verso il nichilismo dei nostri giorni. Un vuoto è rappresentato dalla scena vuota. Non si rimanda ad altro, ma siamo qui e c’è uno spazio vuoto.

Il teatro oggi, in relazione a questi temi presenti in ( )pera didascalica, secondo voi come si presenta e quale sarà il suo futuro?

Raimonda Maraviglia: Il problema è a monte: il teatro si è allontanato tantissimo dalle persone. Spesso si rivolge solo a chi fa teatro. Si gode tra di noi di quel che si fa, compiaciuti del nostro fare, che però non serve più a niente. Mi sembra che il teatro sia qualcos’altro. È un occhio, una prospettiva, una finestra, una possibilità altra, una descrizione di un momento. È comunque uno stare insieme, un qualcosa che ha che vedere con le persone. Io ero stanca perché non vedevo più questo, vedevo spettatori che si addormentavano a teatro e poi usciti dalla sala: “Molto bello”. E allora dici “Ok, c’è un problema”. Il covid ha reso solo più chiari certi problemi che vanno dalla burocrazia disfunzionale al sistema dei bandi sempre in cerca spasmodica dell’inedito, che poi diventa edito per un giorno e poi muore. Io credo molto nella pedagogia e in un teatro che recuperi il suo ruolo di comunione tramite l’insegnamento, oltre che attraverso il palcoscenico. E spero quindi che operazioni come la nostra o come quelle di altre giovani realtà possano poco alla volta ricongiungere il teatro alla comunità.

Con ( )pera didascalica, Alessandro Paschitto e Raimonda Maraviglia pongono effettivamente l’attenzione sulle persone, sulla comunità, sullo sguardo del pubblico, su tutte queste cose da cui il teatro si era allontanato.

Come ci siamo arrivati a questo punto? Cosa ci siamo dimenticati?

Alessandro Paschitto: Potremmo dimenticare molto di più. Anzi probabilmente non abbiamo dimenticato ancora abbastanza. Quindi ora per coerenza una citazione. Peter Handke, vado a memoria, dice: “Chi scrive senza una forma è obbligato di volta in volta al contatto diretto con il reale”. Si tocca il corpo rovente della realtà senza guanti protettivi. Andare dritti, arrivare alla cosa nel modo più immediato. La tradizione urge conoscerla e assimilarla, tornarci di continuo, ma quando poi si comincia a lavorare, per quanto mi riguarda ho bisogno di sentire che sono tutti morti e che la pagina è tornata bianca. Poi se qualcosa riaffiora, e spesso riaffiora, allora è benvenuta. Parlare delle fallacie istituzionali mi deprime e c’è chi può documentarle assai meglio di me. Ci sono dati acclarati che dimostrano lo stato disfunzionale (eufemismo puro) in cui versiamo. Alla pratica del teatro come mestiere tutto si oppone, persino ciò che dovrebbe tutelarla. Questo limite personalmente l’ho tramutato in una scelta, facendone proprio una regola compositiva, almeno in questo progetto. Se non mi danno niente, io prendo il niente. E ci faccio tutto col niente. Anche perché poi nessuno potrà togliermelo. C’è una paradossale gratitudine in questa trascuratezza. Forse, se assistiti, saremmo stati meno chiari e decisi.

Concludiamo così la nostra conversazione; Alessandro e Raimonda mi danno appuntamento in sala (quando si potrà) per fruire di ( )pera didascalica. Per adesso dovrebbe essere programmato nella stagione 2021/22, in autunno. Covid permettendo. Ci lasciamo con la speranza di poterci ritrovare in sala e con la curiosità di vedere il lavoro di Alessandro Paschitto, insieme agli altri due progetti vincitori del premio Leo De Berardinis.

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