Intervista a Marilù Prati: radiografia di un’attrice.

Dalla redazione 

Intervistata da Quarta Parete, Marilù Prati, attrice, regista, autrice e adattatrice, esordisce molto presto nel contesto luminoso di una Roma degli anni settanta,  a quel tempo straordinaria. Un incontro durante il quale l’attrice napoletana rievoca le atmosfere e i momenti che nel corso degli anni le hanno consentito di sperimentare e vivere l’arte interiormente e senza mediazioni. L’inevitabile mutamento degli equilibri, relativi all’avvento della televisione prima e della pandemia poi, non ha dunque rovesciato il settore dello spettacolo, rendendo forse più evidenti i cambiamenti già in atto.

Come è iniziato tutto?

Ho iniziato giovanissima, negli anni Settanta, con Mario Ricci, il maestro del Teatro Immagine. Roma a quel tempo era una città straordinaria, da Carmelo Bene, a Leo De Berardinis c’era tutta l’Avanguardia romana.  Al Teatro La Ringhiera, un piccolo teatro a Trastevere, con Mario Ricci ho esordito nello spettacolo Edgar Allan Poe (1967)  ispirato al mondo allucinato del grande scrittore. Dopo un viaggio in India sono tornata a Roma dove ho conosciuto Elsa Morante e Carlo Cecchi. Elsa per me è stata grande maestra di vita e amica, e per tre anni ci siamo viste quotidianamente. Elsa amava moltissimo il teatro e fu decisiva la sua spinta su Cecchi per dare vita insieme a me e ad altri attori alla cooperativa Gran Teatro. Per tre anni, con Carlo, abbiamo messo in scena spettacoli meravigliosi che si collocavano tra l’avanguardia e il teatro comico e di tradizione. Carlo Cecchi infatti oltre ad essere un grande attore è un grande regista. Abbiamo debuttato al Beat ’72 con Le statue movibili (1971) di Antonio Petito, una farsa napoletana di fine Ottocento con Pulcinella. Il secondo spettacolo è stato Il bagno  di Majakovskji, anche questo giocato sui tasti del grottesco, molto divertente e che ha girato tantissimo in Italia e all’estero. L’ultimo spettacolo che ho fatto con la cooperativa Gran Teatro è stato Tamburi nella notte di B. Brecht.

“Gli esami non finiscono mai”, poi ancora “Il sindaco del rione sanità” l’ hanno vista lavorare insieme al maestro Eduardo De Filippo: cosa di queste esperienze ha contribuito ha dare per lei senso al teatro? Come si declina oggi questa eredità artistica?

È stato dopo aver lasciato Carlo che ho iniziato a lavorare con Eduardo. Tre anni di grande impegno nella sua Compagnia teatrale dove ero insieme ad altri giovanissimi attori di talento. Con Eduardo abbiamo messo in scena il suo ultimo capolavoro teatrale Gli esami non finiscono mai e durante le prove al Teatro San Ferdinando a Napoli andavamo in scena la sera con Il sindaco del rione sanità. Fu un periodo forte e intenso, Eduardo, che a quel tempo era già un monumento, era con noi giovani attori tanto affettuoso quanto rigoroso nel chiederci esattezza, precisione e ispirazione in scena. A Roma recitavamo due mesi al Teatro Eliseo, due a Firenze alla Pergola e due a Napoli al Teatro San Ferdinando. Un’esperienza straordinaria come straordinario maestro e compagno di scena è stato Eduardo, che insieme a Elsa Morante mi ha insegnato ad essere sicura e indipendente con rigore. Nel 1975 per il nuovo ciclo a colori della Rai su Eduardo, lui mi scelse come protagonista di ’Na Santarella di Eduardo Scarpetta, un grande successo.

 Nel 1998 ho ripreso il lavoro su Eduardo con Il figlio di Pulcinella” insieme a mio fratello Geppy Gleijeses, coproduttore e interprete di Pulcinella con la regia di Roberto Guicciardini: era un testo  molto particolare, visionario, basti pensare che uno dei protagonisti era una lucertola. Io facevo Annetta, la cameriera, e interpretavo un duetto canoro molto divertente con Luigi Lo Cascio

È dal testo di Aldo Palazzeschi che prende forma “Le sorelle Materassi” di Geppy Glejeses, da lei interpretato assieme a Milena Vukotic e Lucia Poli: quali reciproche suggestioni e reciproche influenze ha portato con sé questa condivisione?

Negli anni 90’ ho fatto molti spettacoli con mio fratello Geppy, l’ultimo, Sorelle Materassi, è andato in scena al Teatro Quirino nel 2017 e ci ha dato soddisfazioni straordinarie, per tre anni abbiamo recitato nei più bei teatri italiani (sempre esauriti) e siamo stati premiati con il Biglietto d’oro, riscuotendo ovunque grande successo insieme al calore e all’apprezzamento del pubblico. L’adattamento teatrale di Ugo Chiti dal bellissimo romanzo di Palazzeschi ha esaltato i ruoli delle tre sorelle: io ero  Giselda, la sorella più piccola, e lavorare con Lucia Poli e Milena Vukotic è stato bellissimo: se con Lucia eravamo amiche da anni, con Milena abbiamo approfondito un legame proprio in questo contesto. Fu incredibile, meritava una ripresa televisiva.

Attrice ma anche autrice, la sua esperienza teatrale si articola attraverso molteplici punti di vista e prospettive d’osservazione: quale l’elemento trasversale nel passaggio da un ruolo all’altro?

Dopo il periodo trascorso con Eduardo e l’esperienza di “Utopia” con Luca Ronconi (giunto a Edimburgo, a Parigi e a Berlino) ho cominciato a scrivere delle cose mie: il primo è stato il monologo Bumbulè andato in scena al Teatro Alberichino nel 1977 e ispirato alla mia esperienza di vita e al viaggio in India. L’Alberichino era un luogo molto particolare: mentre io recitavo sul palcoscenico del Ridotto, Carlo Verdone e Roberto Benigni, contemporaneamente, nelle altre sale facevano i loro monologhi, e tutto si svolgeva in un’atmosfera di partecipazione e coinvolgimento. Tutto sembrava possibile. Ci si incontrava anche con critici, intellettuali, pittori. Poi è cambiato qualcosa.

Nel frattempo lavoravo molto in televisione, in vari sceneggiati, coprotagonista con grandi attori come Vittorio Mezzogiorno, Paolo Stoppa, Ugo Tognazzi , Placido e altri.  In Rai c’erano allora dei funzionari molto competenti che conoscevano e amavano il lavoro degli attori, ma dopo l’avvento di Craxi la Rai è diventata un’altra cosa. Dalla fine degli anni Ottanta tutto fu diverso.

Un periodo meraviglioso per Roma e la sua vita culturale è stato quello relativo ai nove anni dell’assessorato alla Cultura di Renato Nicolini. In quel contesto ricordo l’atmosfera dell’Estate Romana durante la quale era possibile girare per una Roma che sembrava tornata al Rinascimento; piena di artisti e di proposte culturali e di spettacolo di cui si poteva parlare direttamente con il giovane Assessore presentandogli idee e progetti senza ricorrere a bandi.

La sua attività teatrale non le ha impedito, nel corso degli anni, di confrontarsi con il cinema che l’ha vista interprete a fianco di registi come Liliana Cavani, Federico Fellini, Mario Monicelli: cosa comporta il dar vita ad un personaggio cinematografico rispetto ad uno teatrale e viceversa?

Non cambia nulla, in un certo senso. Ho sempre amato vedere e fare cinema, e fin da ragazzina ho frequentato assiduamente i cinema d’essai. Il primo film a cui ho partecipato è stato Milarepa di Liliana Cavani e fu proprio Elsa Morante, che ammirava e conosceva bene la regista, a presentarmela. Ho partecipato ai film di Maurizio Ponzi, Sergio Nasca, sono stata coprotagonista con Enrico Montesano in Tutto suo padre, e con la regia di Valerio Zecca in Chi mi aiuta?, insieme a Geppy Gleijeses e Luca Barbareschi. Un film fotografato da Alfio Contini che descrive la Roma di quegli anni come una sorta di autoritratto di una generazione. Il film è stato invitato alla Biennale Cinema di Venezia nel 1984 e ha vinto al Il Festival del Cinema di Ischia 1985.

Sono stata sul set de La città delle donne di Federico Fellini e con la regia di Mario Monicelli ho fatto un cammeo prezioso nel film Facciamo paradiso.

L’ultima rappresentazione, il 12 settembre, di “Un tè per due regine”, è stata alla Galleria Sciarra\Teatro Quirino. Questo spettacolo vede l’incontro tra Peggy Guggenheim e Palma Bucarelli alla Biennale di Venezia del 1948 con la regia di Francesco Suriano e la sua interpretazione assieme a Caterina Casini: quale l’origine e lo sviluppo di questo spettacolo in tempo di pandemia?

Partiamo dal 2013. Ho fatto tre spettacoli su Palma Bucarelli. Il primo, In pieno nel nel mondo, in forma di monologo, è stato rappresentato al Teatro Vascello stagione 2013 / 2014 e si articolava sulla forte presenza di immagini visive, scenografie video e una ricerca molto attenta sull’eleganza e la ricercatezza della Bucarelli. I costumi sono stati concepiti e realizzati dall’Accademia Romana di Moda e Costume sotto la direzione di Andrea Viotti).

Il secondo spettacolo “Io volevo diventare Caterina di Russia: dialoghi impossibili con Palma Bucarelli fra la vita e l’arte” è andato un scena  nel 2015, al Teatro Quirino, con la regia di Francesco Suriano. Abbiamo voluto con Suriano evidenziare quanto fosse pericoloso per il teatro il nuovo indirizzo del Mibact  basato su un algoritmo nel giudicare e assegnare finanziamenti al teatro. Infatti quell’anno ci fu la decimazione del lavoro di tante compagnie di ricerca importanti che non riuscivano a rispondere ai freddi requisiti del profitto economico richiesto. Ci è sembrato legittimo nel nome di Palma Bucarelli, grande animatrice culturale e prima donna ad essere direttrice e creatrice del primo museo d’Arte Moderna in Italia, porci queste domande sull’operato del Mibact.

 Il terzo e ultimo spettacolo, Un tè per due regine: l’incontro tra Peggy Guggenheim e Palma Bucarelli, parla dell’incontro, dell’amicizia, dei contrasti tra le due signore dell’arte moderna a partire da una loro fotografia in cui sono ritratte mentre prendono un tè alla Biennale di Venezia del 1948 (la prima dopo la guerra). Ho scritto questo testo con Caterina Casini (già brillante interprete di un monologo su Peggy Guggenheim) e Francesco Suriano. Abbiamo debuttato a Varese con grande successo in Febbraio e dopo il primo lockdown lo abbiamo ripreso ad Agosto al Teatro Comunale di Cagli.

Se tutto va bene ci rivedremo con questo spettacolo dal prossimo 18 marzo all’ OFF/OFF Theatre di Via Giulia.

 Importante è stato anche il workshop di una settimana al Macro di Roma (direttore  Giorgio De Finis) che ha introdotto lo spettacolo e ha aperto un confronto sul tema con alcune allieve dell’Accademia dei Belle Arti e l’intervento del pubblico.

La condizione pandemica ha inevitabilmente interrotto, rimandato, costretto alla trasformazione stagioni e progetti teatrali. Di fronte a questo, come sta portando avanti i suoi ultimi progetti?

Dopo lo spettacolo su Palma Bucarelli debutterò con Processo a Gesù di Diego Fabbri al Teatro Quirino a fine marzo, con la regia di Geppy Gleijeses, accanto a Paolo Bonacelli, Marco Cavalcoli, Daniela Giovannetti e a una numerosa compagnia di attori.
La storia è quella di un gruppo di ebrei scampati alla Shoah che gira tutto il mondo portando in scena uno spettacolo che si chiama appunto “Processo a Gesù”, costruito sull’interazione tra compagnia e pubblico (quest’ultimo interpretato da parte degli attori in platea). Spero che in primavera la situazione pandemica giunga a un miglioramento e si possano riaprire in sicurezza i teatri ed i cinema.

Un’ultima considerazione: chi ama il teatro non propone una piattaforma su modello Netflix, una piattaforma digitale privata. Quei soldi che il ministro Franceschini ha ritenuto opportuno spendere sono uno spreco considerando anche la vita difficile di chi chi fa (o non fa) teatro oggi in Italia.