ti amo maria

Intervista a Luca Gaeta, regista di ‘Ti amo, Maria’

“Ti amo, Maria” è la storia di un amore totale e ambiguo, che racchiude un tema di stretta attualità. Lo spettacolo (su testo di Giuseppe Manfredi) vede la regia di Luca Gaeta e debutterà al Teatro Tor Bella Monaca di Roma il giorno 25 novembre in concomitanza con la Giornata Mondiale contro la violenza sulla donna.

Sappiamo che Ti amo, Maria è stato prima un testo (di Giuseppe Manfridi) con delle testimonianze teatrali e anche un film nel 1997 diretto e interpretato da Carlo delle Piane; com’è nata la scelta di rappresentarlo nuovamente sul palcoscenico?
La scelta è nata da un suggerimento di Stefano Scaramuzzino (attore che interpreta Sandro nello spettacolo). Era un progetto che aveva in mente da qualche anno e di cui avevano parlato insieme e da molto tempo aveva espresso il desiderio di lavorare con me su questo testo. Conosceva i miei lavori che spesso hanno trattato tematiche femminili ed ha così pensato di propormi, vista la delicatezza del tema, come regista della pièce.
Purtroppo, la tematica dello stalking e tutto ciò che c’è intorno, negli anni invece di diminuire è aumentata, abbiamo quindi pensato che fosse il momento di fare questo spettacolo.

Com’è stato lavorare con un testo e una storia del genere, anche in considerazione di questa situazione?
Ovviamente tutti gli spettacoli, tutti i testi che poi vengono messi in scena hanno una difficolta intrinseca, indipendente dal tempo. Amleto è difficile da mettere in scena, perché è difficile mettere in scena quel testo, come è difficile mettere in scena testi teatrali in generale. Non è legato tanto al momento in cui stiamo vivendo, ma alla complessità professionale che c’è nel mettere in scena un testo. In questo in particolare testo c’è da dire che il lavoro dell’autore è stato molto complesso. Da una parte c’è il “cattivo” Sandro che si scopre essere una sorta di orco, dall’altra parte è anche un bambino, con la sua ingenuità, delicatezza, e dai modi impacciati e naïf che non lo rendono come figura di un solo colore. È stato quindi difficile mostrare le varie sfumature di questo personaggio, che è stato in parte vittima del suo carattere, e contemporaneamente far vedere una Maria che, in contrapposizione con quello che subisce, anche lei ha dei risvolti “luciferini” che emergono, legati all’idea della ninfa.. Questo per dire che non si è mai del tutto vittime, mai del tutto carnefici. Cercare di ridare sempre questo equilibrio durante tutto il testo è stata la cosa più complessa.

Il nome della protagonista, Maria, non è ovviamente causale, la Madre, la vergine, ma anche quella che biblicamente è la “grande peccatrice”. In Ti amo, Maria, quanto di tutto ciò emerge?
Se abbiamo lavorato bene, emergerà centralmente. Il pubblico che vedrà lo spettacolo lo subirà, anche in maniera inconscia.

Quanto c’è di simbolico in questa rappresentazione?
Già il nome scelto (Maria) ci porta questo simbolo che è duale, c’è Maria e Maria Maddalena, già solo il nome è simbolico. E poi c’è il titolo, in cui c’è “amo” e una cosa più simbolica della parola “amo”, ancora più citata nell’inglese “love”. Ci sono magliette, canzoni, mostre. Più simbolico nella nostra vita della parola “amore” credo non ci sia nulla. Sotto l’egida di questa parola che è diventata pop, si muove un sottobosco di rimandi: come Ultimo tango a Parigi e Lolita. Ci sono anche dei richiami musicali legati al mondo della nouvelle vague francese, anni Sessanta, citiamo “Ascensore per l’inferno”, vista la presenza dell’ascensore che in scena è l’elemento centrale di tutto. Il movimento della scena è dato dall’ascensore. Ci sono molti elementi simbolici che vengono dall’arte, dalla musica, dal cinema, dalla letteratura, che possono trovarsi dentro il testo.

Che rapporto hai avuto con i due protagonisti, Giulia Bornacin e Stefano Scaramuzzino, e che tipo di “training” hai messo in atto per farli entrare nel ruolo?
Il modo in cui uno affronta tutti i lavori teatrali, cinematografici, che hanno a che fare con l’arte, dipende molto dalla produzione e su quanto può investire. Più fondi ci sono, più tempo c’è a disposizione per fare un lavoro approfondito su personaggi, attori e poi affinare il movimento scenico fino ad arrivare alla messinscena. Con il tempo che abbiamo avuto a disposizione e il lavoro messo in scena, stiamo in una situazione di sbilanciamento, abbiamo lavorato sulla scena, meno sulla introspezione, cercando di chiedere a loro (che sono due attori bravissimi e formati) di muoversi dentro i personaggi. Io sono sempre stato attento a dare profondità ai movimenti scenici e affinché le dinamiche sceniche non “mangiassero” il personaggio. Ho sempre cercato di legare i due lavori, quello scenico e quello dell’attore che va in profondità col personaggio. Fortunatamente mi sono trovato a lavorare con due attori che affrontavano questo testo conoscendolo, metabolizzandolo.

Come regista cosa hai fatto per poter capire le emozioni, la paura, l’ansia di una donna in queste situazioni?
Come regista la cosa che faccio è leggere il testo, rileggere il testo, rileggere il testo, rileggere il testo. Ogni giorno prima di fare le prove leggo e lì trovo la spiegazione a tutto. In caso di dubbio, leggiamo le parole, che ci portano dentro l’anima del personaggio, dentro la dinamica che vive il personaggio nello spazio e la necessità che ha il personaggio di muoversi.
Quando metto in scena qualcosa io cerco di essere totalmente neutro. Non sono né uomo, né donna, né bambino, né vecchio. Cerco di seguire e vedere formato ciò che le parole suggeriscono. Nel caso di Maria, ho cercato di accogliere con sentimento aperto e senza giudizio tutte le parole che venivano dette e poi messe in movimento dall’azione dell’attrice.

Da uomo, cosa ha scatenato in te una storia come questa?
Da uomo, diciamo che ho trovato il personaggio di Sandro ambiguo anche nella costruzione della violenza. Spesso noi diamo alla parola “ambiguo” solo un’accezione negativa, perché vogliamo avere tutto chiaro e limpido, o bianco o nero, o buono o cattivo. Ho “giudicato” lui, con delicatezza, quasi con tenerezza, ma non giustificato. Ho capito che c’è una grande quantità di amore dietro questa situazione che sfocia poi nella maniacalità. E mi ha fatto tenerezza questo essere schiavi di queste passioni. L’autore è stato severo anche con la parte femminile. Ha fatto agire il personaggio sotto un certo tipo di stereotipo femminile, quello stereotipo di donne che dicono “no”, ma vogliono dire “sì”, dicono “sì, ma vogliono dire “no”, ma poi non sempre è così. La caratteristica bella del personaggio di Maria è proprio l’incapacità di comprenderla veramente, non c’è mai la chiave risolutiva. Ho giudicato entrambi i personaggi come potenziali esseri umani “normali”, né una vittima né un carnefice in nuce, ma in potenza ho capito che tutti potremmo trovarci in quella situazione.

Nelle note di regia dello spettacolo si legge «amore beato, amore di sangue e peccato, di carne e violenza» e anche dell’amore come “il più grande dei misteri”. Secondo te dov’è il limite per definire l’amore? Si può “amare troppo”? E nello spettacolo si riesce a percepire questo limite?
Oltre l’amore c’è la beatitudine, la sublimazione. Si arriva a quello che i greci definivano “agape” e tu riesci ad amare tutto, tutti gli esseri umani. Nel testo l’amore si inchioda sulle dinamiche ordinarie, scenicamente e fisicamente. Di fronte all’ennesima ambiguità, alla proposta di un amore da amici, ma anche da amanti, Sandro scappa si ritrae perché voleva tutto. Quando noi amiamo, amiamo e basta, non abbiamo nessun paracadute, siamo in balia del sentimento. L’amore però ha bisogno dell’oggetto, corpo o anima che sia, e se questo viene a mancare non possiamo cancellare l’amore. Cosa ci rimane e come reagiamo? Ognuno ha una sua potenza o debolezza per reagire.

Lo spettacolo debutta il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, a parer tuo, a che punto siamo?
Siamo messi male, ma non solo nei confronti delle donne, ma della violenza che questo mondo ha giorno per giorno. Lo vediamo nei confronti delle donne, degli immigrati, della vecchietta che attraversa la strada e a noi dà fastidio perché ci sta facendo far tardi. La vediamo nei confronti di un milione di forme di vita e di esistenza, anche della Natura, del clima, del mare. Siamo esseri che, anche se non violenti, producono una violenza. Io penso che tutto ciò sia perché siamo molto legati a una forma di materialismo che un po’ schiaccia la parte emotiva o sentimentale delle cose e ci costringe ad aver a che fare con l’oggetto. E non abbiamo più rispetto per quello che c’è di fronte a noi. Bisogna estirpare tutte le forme di violenza.

Può, secondo te, il teatro essere un mezzo per educare le generazioni future sull’argomento?
Lo spero. Ti rispondo raccontandoti una cosa. Sto preparando, contestualmente a questo, un altro testo che parla della guerra in Bosnia e come protagonista ha una donna che durante il periodo della guerra in ex-Jugoslavia è stata violentata, com’è successo a tante donne in quel periodo in cui venivano usate le violenze sessuali come forme di guerriglia. I soldati stupravano le donne per spingerle al suicidio, per metterle incinta e far crescere dentro di loro il figlio del nemico, era una proprio una forma di violenza di guerra. Abbiamo lavorato quindi con questa attrice su un monologo preso da un libro di Luca Leone, che parla appunto di questa donna che ha lottato, andando a caccia dei criminali che hanno stuprato lei e altre tantissime donne, e in più è riuscita a far ottenere dal governo bosniaco un risarcimento per i danni che hanno subito le donne dopo la guerra. È un personaggio molto importante. Abbiamo lavorato così sulla copertina, che doveva riassumere la guerra, la donna e lo stupro. Abbiamo fatto un lavoro fotografico facendo vestire l’attrice con un maglione oversize, con degli anfibi, in un ambiente degradato, come se fosse una casa bombardata. In queste foto si vedevano delle parti di gambe scoperte. Quando ho proposto questo lavoro alla persona che è in contatto con questa donna in Bosnia (dove dovremmo riuscire a portare lo spettacolo), mi ha risposto dicendo che quella foto non poteva essere usata a teatro perché la donna avrebbe potuto avere delle ripercussioni. In quella società, la locandina di uno spettacolo teatrale che parla di stupro etnico, che mostra una donna senza pantaloni, potrebbe portare delle ripercussioni su questa donna anche se sono passati diversi anni da quando lei ha combattuto. Questo mi ha fatto pensare che il teatro fa reagire le persone così (in questo caso negativamente), se ancora una locandina di uno spettacolo teatrale suscita nelle persone una reazione forte, sento che il teatro è ancora vivo. Ha una forza educatrice potente, che non si è mai spenta, c’è ancora un grande urlo dentro. Tant’è vero che, a differenza di altre forme d’arte che hanno “ceduto” alla digitalizzazione, il Teatro è l’unica forma d’arte che è rimasta uguale.