Il pensiero tragico e un teatro universale, collante della comunità: intervista ad Alessandro Machìa, co-direttore creativo del festival Play Iubilaeum! in corso a Roma al Parco Talenti
Nella Capitale dal 30 agosto al 14 settembre la location naturale e suggestiva di Parco Talenti ospita Play Iubilaeum!, un’iniziativa della compagnia Zerkalo e dei Magazzini Artistici APS promossa da Roma Capitale – Assessorato alla Cultura volta a valorizzare lo spettacolo dal vivo in tutti i suoi linguaggi. La direzione artistica è di Alessandro Machìa e Francesco Verdinelli. Oggi abbiamo il grande piacere di intervistare proprio Machìa, regista e pedagogo teatrale, che presenterà al festival due sue opere, Agamennone e in debutto nazionale Le note dei poeti. Laureato in filosofia con una tesi sull’ontologia tragica di Luigi Pareyson, ha approfondito lo studio della drammaturgia di Jon Fosse e la riscrittura dei classici, in particolare la tragedia greca. La sua esperienza è garanzia di qualità e dedizione, la sua immensa disponibilità un regalo che non diamo affatto per scontato. Ora vi lasciamo a questa intervista densa di riflessioni concernenti l’arte e la vita, per cercare attraverso il teatro di orientarci nel mondo e raccontare il presente.
Ti ringrazio ancora per questo incontro.
Grazie a Quarta Parete che seguo e stimo, grazie a voi.
Dal punto di vista del linguaggio artistico che ami adoperare quale strada hai scelto di percorrere per ricercare un’espressione più autentica?
Questa è una bellissima domanda. Diciamo che l’idea che mi muove nel teatro è fare un teatro popolare d’arte. Un teatro che recuperi il termine popolare in un senso alto del termine, cioè che metta al centro l’atto comunicativo. Il teatro come fatto umano, come atto comunicativo profondo, relazionale. Per cui, da un punto di vista anche delle scelte dei testi, scelgo quasi sempre testi che hanno al centro i grandi temi. Io non amo il teatro in un senso feticistico del termine, non amo tutto del teatro. Amo quello che si pone obiettivi grandi, dal momento che noi dobbiamo porci obiettivi grandi.
Aristotele anche nella Poetica diceva che a teatro si va per vedere i concetti universali che ci riguardano e non il particolare, non la cronaca. Oggi siamo abituati alla narrazione cronachistica, a mettere al centro la biografia. Il teatro invece è il luogo della sineddoche, della parte per il tutto, è il luogo in cui in qualche modo ci si interroga sui grandi valori, sui grandi temi e in cui si conosce il mondo e l’altro.
Dal punto di vista stilistico cerco un teatro rarefatto, cerco un teatro che metta al centro l’attore nello spazio vuoto. L’attore come presenza, non come presenza scenica, proprio come presenza. Per me il concetto di presenza è un concetto antropologico. È proprio l’essere presenti come fatto, cioè un attore in scena ci dice che da qualche parte nel mondo quella persona esiste davvero. Non è un simulacro, non è un avatar, è carne, corpo e parola. E questo è importante.
Questo festival è un connubio di linguaggi artistici molteplici (teatro, danza, performance, musica, laboratori formativi). Tutte queste forme artistiche hanno un unico scopo? E l’arte ha uno scopo? O invece la sua bellezza è nella libertà di non averne uno?
Allora, noi potremmo anche dire se fossimo in altri anni, in anni più disimpegnati, in anni più semplici, che il teatro non ha uno scopo, che l’arte in generale, non ha uno scopo. L’arte per l’arte. Purtroppo oggi l’arte deve avere uno scopo. Oggi è necessario poter dare uno scopo al teatro, ritrovare una sua profonda utilità nella collettività, nella comunità. Play Iubilaeum! in questo senso viene a determinarsi proprio come una festa delle arti performative, un’occasione per riflettere sull’arte.
Quel punto esclamativo è una chiamata, è un invito al play, che è il play inteso come un giocare, come un recitare, ma anche come un celebrare. E unisce proprio le due lingue della globalizzazione, del mondo globalizzato, cioè l’inglese contemporaneo e il latino, che è il mondo globalizzato antico. Una sorta di ideale linea temporale che ci suggerisce che da un lato dobbiamo recuperare delle radici, dall’altro però dobbiamo proiettarci verso il futuro, che deve essere un futuro comunitario, un futuro in cui dobbiamo capire che non c’è io senza l’altro sostanzialmente. E questo sembra una banalità, ma è profondamente vero, tra l’altro è dimostrato dalla scienza, dalla psicologia. La costituzione psichica dell’io si forma con l’altro, con buona pace di molti che credono semplicisticamente di governare il mondo a botte di severità, di proclami e di espulsioni. Per cui Play Iubilaeum! vuole proprio essere questo, una festa, un incontro comunitario di persone intorno alle arti performative, grandi artisti e giovani compagnie senza soluzione di continuità.
In merito a una tematica che tratti molto in quanto estimatore della tragedia antica, cos’è eroico al giorno d’oggi?
Avere il coraggio di corrispondere a se stessi, avere il coraggio di affermare un’idea, in questo caso di teatro, arte, cultura, sapendo benissimo che di fatto questi concetti non sono contemporanei, non siamo contemporanei. Mi viene in mente una canzone di Fossati, appunto, Contemporaneo. Oggi noi non siamo contemporanei, perché questo tempo di fatto ci ha espulso. Siamo comunque testimoni di qualcosa che viene da un altro tempo e che però, in una qualche forma, è necessario raccontare, è necessario praticarlo oggi.
Oggi, in questa orgia di virtualità, in questo eccesso di simulacro, il teatro, la danza e il corpo hanno un ruolo, a mio avviso, salvifico. E per questo il teatro non morirà mai, perché si ritornerà al bisogno dell’umano, della presenza. Quindi per me eroico oggi è questo. Quello che stiamo facendo è eroico, nel senso che è il tentativo di offrire gratuitamente cultura. Noi dobbiamo tornare a un concetto di educazione del pubblico. Però devi avere un progetto culturale per farlo. Se non c’è progetto culturale, perché si vuole tenere volutamente le persone in uno stato di minorità, direbbe Kant, a proposito di filosofia, è ovvio che poi tutto scade e allora Play Iubilaeum!, come tante altre rassegne importanti, tanti festival che ci sono in Italia importantissimi, viene a giocare un ruolo ancora più prezioso, ovviamente, e quindi eroico.
Perché hai scelto di concentrarti maggiormente sulla riscrittura di classici, in particolare tragedie? Qual è il potenziale del pensiero tragico?
Innanzitutto bisogna dire che oggi fare i classici è fondamentale, però è fondamentale farli partendo da un presupposto ineliminabile per qualsiasi regista, che il classico è sempre al presente. Se è classico, se è grande, è sempre contemporaneo. Il teatro è proprio concretamente sempre al presente, nel senso che si fa esattamente nell’hic et nunc in cui viene fatto. Devi parlare al pubblico oggi. Il tragico è in noi. Facciamo anche l’esempio del Covid, no? E del lockdown. Ha dimostrato che la fiducia che l’uomo aveva di modificare il mondo con questa protervia in realtà si è rivelata fallace.
E quindi, fondamentalmente, il tragico, anche nel nostro rapporto col mondo, è sempre presente, presente in noi, nella nostra contraddizione. Per questo il teatro non smetterà mai di avere un fascino incredibile nelle persone. Perché è lo specchio della contraddizione che è la contraddizione dell’uomo. Quindi io non posso che abbracciare il pensiero tragico. Perché il pensiero tragico è comunque un pensiero che parte dal presupposto del rapporto dell’uomo con Dio. E che la contraddizione è nel Dio. Il teatro greco insegna che bene e male sono compresenti.
Tra i vari miti classici, ce n’è qualcuno che ti affascina particolarmente, che senti più vicino e perché?
Sono tantissimi. Prometeo, perché contiene tutto. Prometeo dichiara di aver ingannato gli umani con false speranze. La speranza è in qualche modo un inganno. Prometeo appunto contiene tutti i temi del nostro rapporto con il divino e del nostro rapporto con la tecnica.
L’Ippolito. Dio lo punisce per interposta persona, aspetto interessante. Punisce Ippolito perché non è dedito al culto di Afrodite e lo punisce come? Scatenando in Fedra un desiderio lacerante che la porterà poi alla morte. Anche quello è un mito interessante perché ci insegna come non ci si può sottrarre alla compromissione col mondo. In fondo, nella compromissione col mondo, nella calunnia di Fedra, c’è a mio avviso il tentativo di portare l’Ippolito con sé, di sporcarlo con sé, calunniandolo lo umanizza. Nessuno si può sottrarre ad Afrodite. Nessuno si può sottrarre alla compromissione, soprattutto dell’amore, che è la forza più grande.
L’Edipo Re a mio avviso è la tragedia per antonomasia. Questo lo diceva già Hegel. Da un punto di vista anche dell’antropologia mimetica che io seguo, soprattutto nella riformulazione di Giuseppe Fornari, che peraltro conosco personalmente e con il quale c’è un rapporto di stima reciproca, sicuramente Le Baccanti perché è proprio il racconto dell’origine della civiltà, dell’origine violenta della civilizzazione.
ti volevo chiedere quale debba essere l’approccio dell’attore al personaggio
Io parto da un presupposto che l’attore è doppio, è multiforme e soprattutto è un sacerdote che mi affascina profondamente e che officia un rito che a me è precluso. Io parlerei quasi di differenza ontologica tra attore e regista. In questo Peter Brook aveva ragione non si può prescindere dalla presenza dell’attore, è quello che è, il suo corpo comunica, la sua presenza arriva prima di lui, e quindi bisogna lavorare sull’attore, con l’attore, per quello che l’attore ti può dare, per quello che l’attore comunica prima del personaggio, e prima di qualsiasi lavoro sul personaggio. Un buon regista, secondo me, dovrebbe fare questo.
Credo anche che la scelta del cast sia, in questo era Visconti ad avere ragione, il 50% della riuscita di uno spettacolo, perché in fondo esiste un personaggio che corrisponde ad un attore. Credo nel portare il personaggio all’attore, però senza che questo significhi pigrizia, perché può anche sembrare un tentativo pigro di non affrontare l’ignoto. Il personaggio è l’ignoto, lo dobbiamo affrontare, però lo affrontiamo per come siamo noi.
Qual è la sfida maggiore per un direttore creativo?
Il festival lo co-dirigo insieme a Francesco Verdinelli, un musicista di grande livello, compositore, e diciamo ci siamo un po’ divisi tra virgolette la parte musicale e la parte teatrale. La sfida è quella organizzativa, quella di mettere su un team, e io sono fortunato perché ho dei compagni di viaggio bravissimi, degli assistenti meravigliosi, che fanno questo lavoro con amore. Questo è un lavoro che si può fare solo amandolo, non c’è altra possibilità di farlo, lo devi amare profondamente. Le sfide sono state quelle di puntare sulla cultura, cercare di non fare operazioni ambigue, questa è un’operazione puramente culturale, non c’è nulla di commerciale, non c’è un’economia, in realtà c’è un finanziamento e si cerca di fare cose belle dentro quel finanziamento, mettendo sempre davanti la qualità.
La qualità per me è stata la sfida più grande, poi il rapporto con le istituzioni, che è sempre un po’ complicato, però devo ringraziare Roma Capitale perché ha creduto nel progetto, perché per la città si sta facendo tantissimo, per la riqualificazione dei parchi, della città nella sua complessità, per ripuntare sulla cultura e questo vuole essere un piccolo tassello, vogliamo farlo al meglio nel rispetto del compito che ci è stato affidato, orgogliosi e grati.