Dal 23 maggio “Il tempo attorno” è in scena al Teatro India di Roma, Quarta Parete ha intervistato il regista e autore dello spettacolo.
Ciò che subito mi ha colpito ad un primo approccio con Il tempo attorno è il legame che sembra sussistere tra vicenda autobiografica e – proprio per i fatti a cui si riferisce – dimensione pubblica. Come queste due dimensioni entrano in connessione, e come collidono all’interno dello spettacolo?
Entrano in contatto in modo assolutamente organico; la mia vita dall’infanzia all’adolescenza vissuta con i miei genitori, è stata continuamente permeata dall’aspetto pubblico e dalla storia con la “S” maiuscola. Non c’è modo di liberarsene. I miei genitori sono stati una coppia di giudici, portavano in casa il loro lavoro, ne discutevano, era un continuum tra l’ufficio e la casa.
La collisione, allo stesso tempo, deriva dal fatto che – come potrai immaginare – la dimensione personale e quella pubblica non sempre sono facilmente compatibili, innanzitutto a partire dal tempo, dall’uso che si fa del tempo. Se si dedica l’80% del tempo al lavoro, o anche solo al pensiero del lavoro, tutto il resto diviene residuale. La collisione è allora inevitabile perché la natura delle relazioni arriva ad essere intaccata fortemente. Ciò accade per una sorta di ossessione nel dover assolvere un compito, nel dover portare avanti un lavoro di carattere pubblico.
Forse ciò conduce anche ad una sorta di scombinamento di quelli che sono i ruoli che ci si trova ad assumere, laddove quello carattere pubblico va a sconfinare in nell’altro, quello più intimo, genitoriale.
Esiste una difficoltà di fondo nel conciliare, nel mettere insieme i pezzi; anche per questo lo spettacolo si intitola “Il tempo attorno”, perché in contesti di questo tipo tutto risulta permeato, impregnato del tempo esterno. Il tempo interno, quello della famiglia, difficilmente riesce ad avere una natura a sé stante, e diviene così circolare, assume la natura del vortice.
E mantenendo il fil rouge sul senso del tempo, cosa ti ha condotto a portare in scena oggi, nel tempo presente una drammaturgia che più di altre si avvicina alla tua vicenda personale?
Era arrivato il tempo per farlo. Un incontro importante è stato in questo senso l’incontro con Lucia Calamaro, un incontro decisivo. Fu lei a dirmi: con una vita come la tua sarebbe assurdo non dedicare una drammaturgia a quello che ti è successo, a quello che è successo alla tua famiglia.
Non lo avrei fatto se non fosse stato per questa spinta; in un secondo momento mi sono però reso conto che forse era proprio quello il momento giusto per farlo. E’ stato un processo umano, non solo artistico, molto forte, catartico.
In questa prospettiva il teatro e la sua scrittura sono strumenti che al di là di quanto si voglia diventano mezzi per un indagine del sé. C’è stato all’interno di questo processo, qualcosa che non ti aspettavi? Che pur facendo parte della tua storia, ti ha nuovamente sorpreso?
Innanzitutto c’è da dire che l’arco temporale dello spettacolo inizia prima della mia nascita. Comprende cose che precedono la mia nascita e altre che riguardano la prima infanzia, un periodo che non potevo ricostruire se non con la fantasia. E ciò che mi ha sorpreso di più è nelle cose che ho ricostruito, o meglio costruito con la fantasia. Mi sono poi reso conto , confrontandomi con la memoria familiare, che queste avvicinavano al vero quasi più delle cose che ricordavo. E’ stata una cosa magica.
Ad una prima lettura del tuo spettacolo mi è sembrato che un ruolo di primo piano sia affidato all’infanzia. Così come accadeva nel cinema neorealista sembra in questa sede che lo sguardo dell’infanzia, intaccato da eventi più grandi, sia stato portato a perdere prematuramente la condizione di purezza che la contraddistingue.
Ti rispondo con un fatto concreto: quando è morto Giovanni Falcone io avevo nove anni. Lui per me, così come per la mia famiglia, non era soltanto un’icona in quanto magistrato o figura pubblica; era uno tra i più cari amici dei miei genitori. Lui come Francesca Morvillo.
Così, quando lui e Francesca sono saltati in aria, per me si è trattato non solo di conoscere per la prima volta la morte, ma la una morte violenta, ingiusta e provocata da persone senza scrupoli. Tutta una serie di cose che insieme alla fine dell’amore, provocano la fine dell’infanzia.
Ovvero, la coscienza della morte e della fine dell’amore sconfinano in qualche modo nella fine dell’innocenza, di quel tipo di purezza. Ritengo che la mia infanzia sia finita in quel momento, che si sia poi prolungata solo biologicamente . Come se fossi diventato adulto tutto insieme.
In riferimento alle due dimensioni del tempo di cui parlavamo prima, e ancora, al tempo presente. Cos’é per te il teatro oggi?
Credo molto nel valore politico del teatro, politico non partitico. Politico nel senso più arcaico e nobile del termine. Trovo che il teatro nella sua natura unica, in compresenza degli esseri umani possa essere un fortissimo detonatore di domande e di tentativi di risposta a queste domande. Può innescare dei processi che sono appunto, intrinsecamente politici, etici, umani. Perciò io credo molto in questa potenzialità, e mi piace molto il teatro che riesce a fare questo; questo è per me il compito del teatro e quello che cerco di fare con i miei spettacoli.
Una dimensione connaturata anche al teatro in quanto tale. Il teatro nasce sul piano arcaico e spaziale, come politico.
Assolutamente, il teatro nasce così, per mettere di fronte agli individui domande spesso scomode, serve per rivoltare le esistenze delle persone. Ciò oggi non succede tanto spesso, perciò quando succede quello che si verifica è tanto più potente. Torno a dire, rispetto ad altre arti il teatro ha in sé il miracolo della compresenza delle persone, questo è il suo valore aggiunto, questo è ciò che lo rende straordinario.
Così come il suo aspetto di atto irripetibile.
Esattamente; se da un lato spesso a noi teatranti sembra di scrivere sulla sabbia, e ciò ha in sé una sua malinconia; d’altra parte c’è l’illusione che quella “compresenza” che è propria del teatro sia stata in grado già di per sé di creare qualcosa di forte.