Un mondo senz’anima e aspiranti padroni: un’orda di leoni che consuma dalla testa, fino a divorare cuore e polmoni.
Vi sono produzioni drammaturgiche coeve, talune più di altre, la cui prerogativa fondativa è quella di convertire il palcoscenico a lente di ingrandimento sociale e collettiva. Undici di esse, compresa quella di cui parleremo in queste righe, trovano posto in ZoomTeatro, la rubrica in programmazione dal mese scorso al Teatro del Murgo di Catania, sotto la direzione artistica di Paola Greco. La sala, insieme ad un grazioso cortile, sono ubicati all’interno di Palazzo Scammacca, il signorile edificio che dall’Ottocento si erge possente nell’omonima piazza etnea. Questa cornice, ulteriormente rinnovata ad angolo storico, artistico e culturale, si è confermata per il secondo anno consecutivo, il luogo perfetto dove rendere infinitesimale, fino ad “abrogarla”, la distanza attore-spettatore, il luogo perfetto per servirsi della narrazione con una chiara intenzione: inquadrare, ravvicinando; ritrarre, raccontando. Portando in primo piano, in questo caso, il volto sfigurato e malformato, alterato e distorto, danneggiato e rovinato di una società completamente usurpata dal male. Completamente sommersa nel profondo “mare del male”, che fa rabbrividire.
Un intreccio di parole, adoperato di proposito, dove se le consonanti cambiano, contrastano e si scambiano, il risultato rimane invariato. Questo risultato arriva a partire da un prestito musicale ben inserito, che non è altro che quello da cui lo spettacolo in oggetto, il secondo della rassegna, è stato originato. A dichiarare Com’è profondo il male è l’attore e autore Davide Cirri che non si priva affatto, e lo possiamo cogliere, di scomodare, con una piccola alterazione nel titolo, la memorabile profondità del mare di cui ci aveva già detto un lungimirante Lucio Dalla quasi cinquant’anni fa, nel 1977. All’epoca il cantautore ragionò sul “dramma collettivo di un mondo che persino ai pesci dovette sembrar cattivo”. E oggi, alle soglie del 2026, non c’è niente di più vero. Non c’è niente di più traviato e miserabile, niente di più avvelenato, da una cattiveria così indomabile che i pesci finiscono per affogarci dentro.
Tuttavia, Cirri sviluppa il suo monologo, senza la riproduzione effettiva in scena del brano siglato Dalla, lasciando soltanto che quest’ultimo aleggi tra le parole e le persone. Del resto, possiamo fare a meno di ascoltarlo, se diventa naturale intuirlo. E l’intuizione e l’interpretazione rimpiazzano qualsiasi simbologia di uno spettacolo votato all’addizione narrativa e alla sottrazione della scenografia, quest’ultima totalmente azzerata. L’azzeramento, infatti, è tale che la sola eccezione è data da una seggiola sulla quale occasionalmente mettersi a sedere ed un unico faro dalla luce morbida che di tanto in tanto rischiara la penombra complessiva.
All’imbrunire dello scorso 14 dicembre, la seconda domenica del tempo natalizio, nella penombra di quello spazio teatrale raccolto e informale, appartato e riparato, si aggira un uomo nottivago in cappotto scuro, un po’ ricurvo e claudicante che, sommessamente, inizia a raccontarsi. Quell’uomo è Cirri che, con la valente immedesimazione che lo contraddistingue, procede ad identificarsi nell’anziano individuo di nome Piero, un amorevole pensionato incrociato per caso tra i viottoli di Palermo qualche tempo prima, alla cui storia personale, poi universalizzata, dobbiamo l’ulteriore origine di questo spettacolo.
L’attore si fonde in un tutt’uno con lui, restituendo autenticamente e rispettosamente il suo scrigno di ricordi familiari, le sue considerazioni generali sul mondo che lo ha isolato e, altresì, gli occhi umidi e la voce rotta di un pianto trattenuto a fatica. Piero è rimasto un uomo sensibile, di quella sensibilità scambiata per cretineria e mancanza di vigore, in un mondo impassibile che non conosce clemenza ed empatia. E nella penuria globale di quoziente emozionale di chi agisce per tradire, di chi parla per ferire, guarda per condannare e non ha orecchie per ascoltare, le cicatrici di Piero fanno rumore.
Alla commozione si contrappone, però, quell’estremo opposto chiamato ad alleggerire la tessitura drammatica: una leggerezza che si traduce in una spensierata risata del pubblico che a tratti non può fare a meno di sbellicarsi innanzi alle modalità sdrammatizzanti dell’eloquio che, più che un monologo, si trasforma in un dialogo con la platea, una conversazione scorrevole e confidenziale all’interno di un’oratoria dal vistosissimo e peculiare accento palermitano, noto per essere identificato forte e chiaro alla pronuncia della primissima sillaba.
Una confidenzialità percepita dallo stesso signor Piero nell’incontro fortuito con Cirri, trovando in lui un amico, seppur di passaggio, e trovando in un estraneo una persona di parvenza affidabile che, in quanto tale, ha saputo disporsi all’ascolto in un mondo che sa solo tirare dritto, divenendo destinatario di un vissuto e lasciando che lo diventassimo anche noi: destinatari e interlocutori del trascorso di un uomo che smorza il macigno del dolore che nessuno vede con la simpatia, che allenta il sangue che sgorga dalle sue ferite mai appieno rimarginate con l’umorismo. E spesso tanto più forte è quest’ultimo, quanto più grande è la sofferenza celata, quanto più immensa la malinconia nascosta.
Ed è in questa direzione, in questa fuga dalla paralisi del dolore, nella ricerca transitoria di guarigione, che scaturisce un elemento di forza in più: il gesto impulsivo e urgente di scoprire il corpo per donarlo alla danza, ad un volteggiare che mitiga in un istante la tribolazione, ad un “librarsi” che allevia dall’afflizione, ad un “liberarsi” che ristora dall’avvilimento. L’alleggerimento del peso del tormento che diventa slancio, corpo in movimento: una sorta di riconquista della libertà, di sollievo dalla paura, espressi in un vorticare coreografico arrangiato e improvvisato, un balzare rapido e un piroettare energico e senza musica. Sì, ancora una volta, la musica non è necessaria, se è sufficiente immaginarla. Se è sufficiente per Piero vibrare sin dalle viscere, vibrare di lucidi sogni e di saggia rabbia. La rabbia di chi nella sua lunga esistenza, dalla primavera alla vecchiezza che precede la morte, ha appreso che c’è quella strana legge uguale per tutti, una causa-effetto che si chiama karma e prima o poi darà i suoi frutti.
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Com’è profondo il male – di e con: Davide Cirri – regia: Davide Cirri e Sergio Beercock – Direzione artistica ZoomTeatro di Paola Greco – Produzione: Incontro Teatro e Babel – Open Associazione Culturale – Rassegna ZoomTeatro Dettagli di creazioni contemporanee – Teatro del Murgo di Catania, 14 dicembre 2025




