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Il Presidente, la scadenza e il lutto

Un umanissimo  backstage sulla massima carica dello Stato e le sue inconfessabili ossessioni

Ci sono domande che l’epoca rende urgenti, formulandole da orizzonti assolutamente inediti: di chi sono i nostri figli? Per quali motivi possono essere strappati a chi li ha generati? Di chi è il nostro sangue? Perché può improvvisamente venire iniettato a forza? E ancora: “definisci bambino”… e simili. In questo panorama iscriviamo l’interrogativo ossessivo “Di chi sono i nostri giorni?” che il melanconico Presidente della Repubblica in scadenza, Mariano De Santis, un Toni Servillo, parafrasando il titolo, in stato di grazia forse mai sfiorato prima, si ripete e sbatte in volto ai sui cari come ai più intimi collaboratori, dovendo affrontare le questioni spinose che incoronano il suo scadere del mandato: richieste di Grazia dai confini moralmente incerti e una legge sull’eutanasia che lo riporta, costante e impudico, a rivangare il lutto mai elaborato, ma anzi coltivato con ostinazione, di sua moglie Aurora. 

Dopo l’affollato acquario barocco di “Partenope”, Paolo Sorrentino firma a piene mani (sua è anche integralmente la sceneggiatura) una morte del cigno di eleganza sovrumana. Asciutto, teso, scolpito nel marmo in ogni suo personaggio, nitido come un epitaffio, imbastito dal sorriso leggero che ogni bravo terapeuta sa definire “della forca”, perché radicato nello struggimento più autentico della coscienza della fugacità, Mariano, delicato e aspro, detto a sua insaputa “cemento armato” che nutre dentro un’anima fragile come ali di libellula, capace di emozionarsi per un Rap, parafrasando Jovanotti, dove ad affacciarsi alla finestra è nientemeno che uno spacciatore… un Peter Sellers che non attraversa mai i confini del suo giardino, tiene botta a ben sei crisi di governo, ma non sa vedere morire il suo cavallo preferito, agonizzante. Un uomo super partes in senso tecnico, che assomiglia però vertiginosamente a tutti i nostri più inconfessabili disequilibri, specie a quelli precisissimi di chi ha scelto la politica, sperando che questa potesse permettere un’abdicazione sollevata alla sensibilità tutta, per poi scoprire che la speranza era malriposta. Italiana italianissima questa parabola universale sul potere, umano umanissimo nei suoi piccoli favori, nelle ipocrisie necessarie, nei figli che si cercano lontano e nelle figlie vestali che restano accanto con totalizzante premura, abdicando presumibilmente a ogni vita privata. 

Un film visto con il gusto insolito della mattina, in anteprima assoluta, ma che si vorrebbe rivedere mille volte, per prendere appunti sulla gestione elementare delle cose, sullo scalpello di ogni battuta. Perché è della vita stessa che questo impietoso, ma non privo di tenerezza, apologo sul Potere parla. Dell’amicizia paradossale tra un Papa rasta che non può accettare con leggerezza la legittimazione della morte per mano umana, ma forse ne capisce le ragioni; del corteggiamento di una donna bellissima verso un uomo che si crede finito, perché una trama invisibile raccorda i fili della loro comune irriverenza, del giullare che vorrebbe rompere il tailleur e l’abito di cerimonia, ma che non può permetterselo pubblicamente; della nevrosi ossessiva che Mariano coltiva ricercando senza riposo i contorni di un presunto tradimento della moglie, il ruvido tentativo di riparazione che la sua unica amica tenta, tentando contestualmente di sorprenderlo. 

Le atmosfere sono quelle de “La Grande Bellezza”, perché Roma resta il ventre di vacca del potere quantomeno quello costituito, visibile, formale, ma l’autocitazione più o meno dichiarata di questa Summa Sorrentiniana, spazia da “Il divo” a “The young pope”. Su tutto una luce livida e abbagliante insieme. Numerose le citazioni dell’intelligenza diffusa, eppure inessenziale alla fame del cuore che scalpita e stride dietro le cravatte. C’è un tempo che incombe su tutto, che spinge l’urgenza dell’anima a tradire il rito sempre meno sopportabile, il tempo dell’attesa dilatata, del lutto eterno, della ricerca della confessione liberatoria dell’istante che unisce, rivela e libera, ma che non arriva mai del tutto. C’è uno spazio privo di gravità che fa sì che il Presidente si senta ipnotizzato dal collegamento con un astronauta triste, isolato da mesi in una capsula, forse la vita più risonante con la sua, tra tutte quelle che incrocia nel significativo segmento temporale raccontato.

Non è più la mano di Dio a tessere i fili della Storia, ma quella, umanissima, impacciata, tremante, imbarazzata, dell’uomo – e delle argute vestali che lo accompagnano- che come il drone del finale osserva con tale elevatezza le trame dello Stato che detiene, da potersi permettere di assumere decisioni inusualmente etiche, formulare valutazioni emozionali su casi di vita e morte, tentando, con l’osservazione diretta delle plateali fratture altrui, di ricomporre le sue invisibili ma ancora più letali, perché inconfessabili al ruolo ricoperto. Come un funambolo, talmente postcontemporaneo da risultare classico, il Presidente, ex giudice e autore di un poderoso manuale di Diritto Penale, terrore storico di ogni studente di giurisprudenza, governa con eleganza dichiarata i contrasti con il suo Segretario Generale, che ne teme i guizzi da Pierino, subisce l’ascesi di quinoa imposta dalla figlia immolata come Anna Freud al padre (il film in fondo non fa che affrontare una sua versione lirica del principio della coazione a ripetere stessa) non capisce il genio moderno del figlio maschio, prudenzialmente emigrato in Canada, intona ritornelli stonati con gli alpini, affronta sgradevoli omicide, fronteggia successori ipocritamente amichevoli, cercando in ogni caos, in ogni disfunzione, quella radice di autenticità inviolabile che, una volta raggiunto il vertice, ti lascia agognare una pizza take away e una camminata finalmente libera verso casa propria. Dettagli forse più importanti della ricerca della verità stessa, che per tutta la vita l’ha torturato, tanto da diventare un vizio, finanche una scusa, alla responsabilità del proprio procedere, come enunciato da uno dei suoi uomini. 

Ma se allora la Grazia Ricevuta, agognata, “amazing” (cioè stupefacente per clonare l’espressione anglosassone) fosse proprio quella, inconfessabilmente oscena, di essere se stessi e riappropriarsi, anche se a costo altissimo, del proprio tempo e della propria impudica autenticità, a dispetto dei rituali e perfino nel rispetto delle proprie libere ossessioni? Nella piena coscienza della finitezza del tempo e dell’irripetibilità del sentimento, nella tremenda responsabilità di essere vivi e dotati di influenza. Per scoprire forse che il rigore del Diritto e le lacrime del cuore non sono poi così antitetici, così come le ragioni del sacro e quelle del profano, la poesia e la prassi più spigolosa, il fasto e la semplicità francescana, che l’esistenza in forma elevata integra i contrasti, come direbbe il Tao.

Splendidi i protagonisti, Toni Servillo, Anna Ferzetti, Massimo Venturiello… ma ancora più notevole la scelta di tanti personaggi collaterali, così sconosciuti e autentici che definirli “cammei” suonerebbe riduttivo, tanto che il film non sembra poi italiano come si usa oggi. Ma queste sono scelte che solo chi ha esplorato il Potere in ogni sua sfumatura da conquistare la Libertà piena di rappresentarlo, nelle sue contraddizioni e nella sua ironia divina, può davvero permettersi.

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La grazia – Regia, soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino – Con: Toni Servillo, Anna Ferzetti, Orlando Cinque, Massimo Venturiello, Milvia Marigliano, Giuseppe Gaiani, Simone Colombari, Giovanna Guida, Alessia Giuliani, Roberto Zibetti, Linda Messerklinger, Vasco Mirandola, Rufin Doh Zeyenouin, Francesco Martino, Alexandra Gottschlich, Guè, Lorenzo Pellegrinetti – Scenografia: Ludovica Ferrario – Montaggio: Cristiano Trovaglioli – Costumi: Carlo Poggioli – Trucco: Paola Gattabrusi – Musiche: AA.VV. – Fotografia: Daria D’Antonio – Effetti speciali: Rodolfo Migliari – Prodotto da: Paolo Sorrentino, Annamaria Morelli, Andrea Scrosati – Uscita nella sale 15 gennaio 2026

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