Il pentagono amoroso di Patroni Griffi

Indagine sull’amore come componente esistenziale.

Metti, una sera a cena non è un classico perché scritto più di cinquant’anni fa, ma perché è nato tale, sin dal lontano 1967, in cui si affacciò per la prima volta sul palcoscenico dell’Eliseo in una prima che vide il bel mondo del teatro e del cinema riunito in sala ad applaudire una Compagnia di giovani attori, i quali già mostravano la loro eccezionale bravura: Romolo Valli, Rossella Falk, Elsa Albani, Carlo Giuffré e Umberto Orsini.

Due anni dopo, ancora vive le repliche teatrali, divenne film con altri mostri sacri della recitazione, tra i quali Jean-Louis Trintignant, Florinda Bolkan e Annie Girardot.

Tracciare un paragone con queste due prime rappresentazioni e con quelle successive è del tutto inutile, ad essere sinceri. L’opera, ovviamente, è quella e se ne ragiona guardando al suo tempo e al suo autore; l’arte recitativa e rappresentativa, invece, sgorgano da fonti immerse in un tempo e in uno spazio ben precisi e di volta in volta diversi.

La trama è nota. Il triangolo amoroso   – lei, lui e l’altro –   si estende ad altri due personaggi e si trasforma in un “pentagono”, nel quale, peraltro, un inconfessato amore omosessuale viene vissuto per il tramite di una donna. Un meccanismo psicologico non infrequente.

Novità assoluta del testo? No. Tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, la coppia scoppia. È noto a tutti. Si inizia a parlare insistentemente di legge sul divorzio e l’arte affronta a suo modo il vento del cambiamento, sdoganando situazioni allora considerate scabrose, amori allora considerati proibiti; parlando della famiglia in disfacimento.

Il 1967 è l’anno in cui Charles Aznavour canta: «Lui di nascosto osserva te, tu sei nervosa vicino a me … ed io, tra di voi, se non parlo mai, ho visto già tutto quanto». Tre anni dopo Battisti scrive E penso a te: «Io lavoro e penso a te, torno a casa e penso a te, le telefono e intanto penso a te …».

Anche in teatro la crisi della coppia s’impone, quindi, portando una ventata di trasgressione. Albee nel 1962 inventa un drammatico gioco di ruoli con Chi ha paura di Virginia Woolf? e, nel 1967, affronta la “gabbia familiare” con Un equilibrio delicato, sebbene giunga a conclusioni diverse da quelle di Patroni Griffi, il quale, nello stesso anno, scrive, per l’appunto, il suo Metti, una sera a cena.

L’innovazione del testo, pertanto, non è nella trama, che tocca, come abbiamo visto, un argomento allora di moda, sebbene qui vi si aggiunga, sulle istanze di libertà sessuale che sfoceranno nella rivoluzione sessantottina, la componente omosessuale, fino ad allora presente, ma non in questi termini, solo in alcune opere, tra cui – meravigliose – quelle di Tennessee Williams. L’innovazione risiede nella rappresentazione.

Innanzi tutto, protagonista è un gruppo di persone, tutte incatenate le une alle altre in una sorta di tribalità esistenziale, sicché l’uscita dal gruppo determina un depauperamento emotivo sia individuale, sia collettivo; e, dal momento che è il gruppo a dover sopravvivere e non l’individuo, qualunque presenza esterna, transfuga involontaria di una società che pretende la sopravvivenza di un individualismo ormai demodé, di un amore di coppia, persino della gelosia, deve essere inglobata. La logica della setta, del pensiero collettivo, dell’unicità sociale manovrata da altri. C’è un sottofondo politico molto forte ed inquietante, se leggiamo con attenzione il testo oltre la storia che narra.

Inoltre, si assiste ad una costante osmosi narrativa tra la storia dei protagonisti e la storia scritta da uno di essi. «Tutto ciò che accade, lo scrivo; tutto ciò che io scrivo accade» si legge in un bel romanzo fantasy degli anni Ottanta, La storia infinita. Una frase che ben descrive la pièce in scena oggi all’Off Off: il ticchettio della macchina da scrivere segna la nascita di un’invenzione letteraria, che, tuttavia, trova riscontro nella verità del gruppo.

Infine, viene scardinata l’unità di tempo e di luogo: il prima e il dopo sono spazi psicologici che si alternano senza soluzione di continuità e che richiedono tutti i protagonisti sul palcoscenico anche quando sono fuori azione. Improvvisamente immobili, in una penombra che denota la loro finta uscita di scena, i personaggi assomigliano a pedine, capaci di muoversi solo secondo le regole di un gioco, quello delle dinamiche disfunzionali di coppia. Sotto questo profilo, molto indovinata era l’originaria scenografia di Pizzi, quella del 1967, che vedeva il palcoscenico trasformato in una scacchiera, così come altrettanto indovinata è quella odierna di Capparoni, storico collaboratore di Peppino Patroni Griffi e, quindi, ottimo interprete delle sue opere anche sotto il profilo registico, il quale, insieme ad Alessandro Chiti per le scene e ad Umberto Fiore per le luci, ha suddiviso la scena in riquadri, una sorta di scacchiera tridimensionale, al centro della quale, ovviamente, campeggia il tavolo da pranzo, anzi “da cena”.

La regia è stata felice e intelligente. Giusta nella resa contemporanea della storia.

Bravi gli attori, senza dubbio.

Laura Lattuada è sempre una garanzia. Ha un modo garbato di affrontare il palcoscenico e, al contempo, forte, impositivo. Lavora molto bene anche con il linguaggio del corpo, lasciando, ad esempio, che la sua sciarpa di seta reciti accanto a lei. Vi sono casi in cui sottolinea il ruolo di pedina del suo personaggio attraverso la postura: spalle basse, braccia spente lungo il corpo.

Anche Clara Galante entra benissimo nel personaggio, peraltro con tutte le sue attitudini artistiche, che non sono poche: il suo personaggio possiede la grazia, l’eleganza di movimenti quasi “danzati”, e, al contempo, una presenza incisiva.

Kaspar Capparoni è “in parte” con grande naturalezza: è portatore di una “finzione vera” che piace molto al pubblico. Il suo schema recitativo ha una cadenza quasi musicale.

Bravissimi anche Carlo Caprioli ed Edoardo Purgatori. Caprioli segue brillantemente, nella sua interpretazione, la mesta crisi esistenziale tipica degli scrittori, i quali, spesso, si trovano a combattere con i fantasmi della fantasia e passano da un angolo di realtà all’altro, aspettandosi di uscire, prima o poi, dalle pagine scritte che hanno incartato la loro anima. Interpreta, infatti, con lucida precisione lo scrittore che crea dal suo silenzio quel gruppo, assegnando ruoli (e posti a tavola). Purgatori, che porta in scena un personaggio giovane, vigoroso, spregiudicato, ma anche più vero degli altri, attraversa efficacemente il bosco delle relazioni e dei sentimenti, si bagna nelle intemperie emotive, a volte, forse, troppo veementemente, ma sempre con grande efficacia.

Solo tre piccole pecche. La prima risiede nel pathos urlato, che, a volte, scappa di mano a più di un attore, lasciando in disparte l’esternazione del dramma attraverso un lavoro di pause e incisività vocale. La seconda traspare nei momenti di dialogo con il pubblico, che reca sempre un qualcosa di didascalico quando non entra nella storia. La terza riguarda l’uso di alcune parole un po’ troppo esplicite: il tema è trasgressivo, ma non per questo deve essere volgare.

Di sicuro è una mise-en-scène meritevole di attenzione.

Metti, una sera a cena di Giusepe Paroni Griffi – con: Kaspar Capparoni, Laura Lattuada, Carlo Caprioli, Clara Galante, Edoardo Purgatori – regia Kaspar Capparoni – Aiuto regia Orazio Rotolo Schifone -Scene Alessandro Chiti – Costumi Valter Azzini – Direzione tecnica e luci Umberto Fiore – Assistenza tecnica Gloria Mancuso – Off Off Theatre dal 19 al 28 gennaio 2024

Foto di copertina: Da sx Carlo Caprioli, Clara Galante, Laura Lattuata, Kaspar Capparoni ed Edoardo Purgatori.

Teatro Roma
Grazia Menna

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