Il Mondo di Tim Burton a Torino

Dall’11 ottobre 2023 al 7 aprile 2024 la Mole torinese, prestigioso museo del cinema, accoglie una mostra immersiva ed emozionante dedicata al regista americano e al suo mondo onirico e surreale.

1958. Nasce a Burbank un bambino silenzioso dalla fervida immaginazione. Nasce in una cittadina nella quale   – così narra egli stesso –   la cultura museale non è sentita più di tanto. «Non ho mai visitato un museo fino all’adolescenza. Occupavo il mio tempo guardando film di mostri, disegnando qualsiasi cosa mi venisse in mente o giocando nel cimitero locale. In seguito, quando ho iniziato a frequentare i musei, sono rimasto colpito da quanto la loro atmosfera fosse simile a quella dei cimiteri. Sono entrambi ambienti silenziosi, introspettivi, eppure entusiasmanti. Eccitazione, mistero, scoperta, vita e morte …. Trovi tutto nello stesso posto». Il nome di quel bambino è Timothy Walter Burton, meglio noto come Tim Burton, e anche adesso, che di anni ne ha sessantacinque, un po’ bambino è rimasto. Il suo è ancora un mondo fatto di strade magiche uscite da libri dimenticati e attraversato da mostri malinconici, da figure inquiete e solitarie, incomprese, fragili; maschere più vere del vero, proiezioni di un Es giocoso, che non sa di far paura, a volte. Il macabro di Tim ha sempre qualcosa di meraviglioso; nel suo horror c’è lo stupore dell’inconoscibile, sia esso realizzato attraverso film, o attraverso disegni, fotografie, maschere e poesie. I suoi cimiteri, poi, sono paesaggi variegati, mondi da esplorare, donde dissotterrare il senso della vita che ritorna in tante forme. In Burton l’essenza dell’eternità urla dall’apparente caducità delle cose. È un creatore di fantasiose “false porte” di egizia memoria, deputate al collegamento tra diversi mondi.

La sua carriera inizia prestissimo con una serie di cortometraggi e due lungometraggi. Quindi approda alla Disney, ove realizza, tra l’altro, un cortometraggio di sei minuti su Vincent Price e, poi, ne realizza altri due un poco più lunghi, che, tuttavia, non incontrano il gusto della produzione, perché giudicati troppo al margine tra il film d’animazione destinato ad un pubblico di bambini e il film horror destinato ad un pubblico adulto.

Lui è l’esempio più fulgido di cosa possa fare chi non si arrende.

Prosegue il suo cammino in quel mondo fantastico che non deve e non può essere racchiuso in un’etichetta sola: “per bambini” o “per adulti”. Lavora con la Warner Bros, con Amblin, con la Twentieth Century Fox, con Paramount e con molte altre case di produzione; torna anche a lavorare con la Walt Disney.

Oggi i suoi film, sin da quando escono, sono considerati dei cult; sono amati da adulti e bambini e quel mondo di musei conosciuto solo nell’adolescenza accoglie le sue opere. Lo ha fatto il MoMa di New York; lo sta facendo il Museo del Cinema di Torino, allestito all’interno della Mole Antonelliana: uno spazio grande e ben organizzato che consente al fruitore di entrare non già in un’esposizione, ma in un mondo, un microcosmo fatto di riferimenti cinematografici, di piccoli passaggi e di grandi portali evocativi, che immettono direttamente nelle mille storie uscite dalla fabbrica dei sogni. Ha una vita propria, questo museo, quella di una pellicola virtuale all’interno della quale camminare, sognare, a volte perdersi: da Cabiria ai western, dalle eleganti danze di Fred Astaire a Guerre Stellari, dal Fantasma dell’Opera a Dracula, dai Gremlins ai dinosauri, passando attraverso le diverse forme dell’arte cinematografica.

Ed è in questo complesso e affascinante percorso che è stata magistralmente inserita la mostra. Non è un caso che si intitoli The World of Tim Burton. Racchiude il suo mondo, in effetti.È suddivisa in nove sezioni tematiche che ospitano i tentacoli della sua innata poliedricità: disegni e pitture, fotografie, filmati, ma anche costumi, pupazzi ed installazioni. Si percorre una lunga strada, seguendo il morbido movimento a spirale della struttura museale, che ricorda il Guggenheim di New York, mentre, ad intervalli regolari, uno dei più famosi ascensori del mondo fende l’aria verso il cielo.

Due grandi schermi, inoltre, proiettano le immagini più iconiche dei suoi film.

Ecco, i suoi film.

Il primo grande successo internazionale arriva con Beetlejuice, una storia di confine tra vita e morte divertente e assolutamente geniale, anche grazie alla straordinaria interpretazione di Michael Keaton. Quindi è la volta di Batman, nel quale sfilano grandi nomi della cinematografia americana: ancora una volta Michael Keaton accanto ad attori del calibro di Jack Nicholson e Jack Palance. Una Gotham City assolutamente oscura, ove prevale la notte dell’anima. Nel 1990 inizia un sodalizio artistico fortissimo con Johnny Depp, attore perfetto per i ruoli burtoniani. Esce Edward Mani di Forbice, con il pregevole ruolo cameo di Vincent Price, il suo amato Vincent Price.

Con Nightmare Before Christmas, del 1993, torna, poi, alla passione per l’animazione in stop motion, che, da quel momento, si alternerà e a volte si fonderà al film tradizionale. Nightmare Before Christmas è un film poetico, che parla di ruoli preordinati e di voglia di fuga da tutto ciò, parla di solitudine, di incomprensione, di anelata scoperta d’altro, proprio come fa l’adorabile ragazza di pezza, che sfugge al suo creatore aguzzino scucendo una parte dei fili che tengono insieme il suo corpo e si addentra, con un braccio solo, nella notte dell’esistenza, quella situata a metà tra l’essere e il voler essere. Il protagonista, Jack Skeletron, lo scheletro re del paese di Halloween, il quale vuole scoprire cosa si prova ad essere Babbo Natale, gode, nella versione italiana, del doppiaggio di un magnifico Renato Zero, capace di interpretare perfettamente il coacervo di sentimenti contrastanti che si agitano nel suo animo.

Da questo momento la strada di Tim Burton arriva al cielo. Non solo riscuote un meritatissimo successo anche di botteghino, ma diventa icona di uno stile cinematografico personalissimo; uno stile che parla un linguaggio poetico e surreale, reso assolutamente sublime anche dalle musiche oniriche di Danny Elfman.

Si susseguono veri e propri capolavori: Batman, il ritorno (1992), Ed Wood(1994), Mars Attacks! (1996), Il Mistero di Sleepy Hollow(1999), Il Pianeta delle Scimmie (2001), Big Fish (2003), La fabbrica di cioccolato (2005), La Sposa Cadavere (2005), Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street (2007), Alice in Wonderland (2010), Dark Shadows (2012), Frankenweenie (2012), Big Eyes (2014), Miss Peregrine, la casa dei ragazzi speciali (2016) e Dumbo (2019). Tra le serie tv, poi, è davvero particolare Wednesday (2022), una rivisitazione in chiave burtoniana della Famiglia Addams.

La partecipazione ai film di Tim Burton diventa una sfilata da Oscar. Nelle sue pellicole coabitano più eccellenze, un po’ come accadeva con i film di Robert Altman. Oltre a Michael Keaton e Johnny Depp, a Jack Nicholson, Jack Palance e Vincent Price, figurano nomi del calibro di Danny DeVito, Michelle Pfeiffer, Christopher Walken, Martin Landau, Bill Murray, Winona Ryder, Glenn Close, Annette Benning, Christopher Lee, Tim Roth, Helena Bonham Carter, Charlton Heston, Albert Finney, Jessica Lange, Steve Buscemi, Alan Rickman, Anne Hathaway, Samuel L. Jackson, Colin Farrell, e molti altri.

Le creazioni si moltiplicano: quelle di Burton, dall’idea alla regia, ma anche quelle attoriali. Il risultato è inevitabilmente un’opera d’arte. E mai fine a se stessa. C’è sempre la narrazione di qualcosa che va al di là della storia.

Quello di Tim Burton è un mondo in cui i protagonisti ragionano a testa in giù, guardando le piccole cose che normalmente sono accanto ai loro piedi e di cui non avrebbero potuto accorgersi altrimenti, e guardando al cielo da una prospettiva diversa. Luoghi dove regna la morte si fondono con i luoghi della spensieratezza e della gioia. A volte nella trasformazione tra vita e morte si cela una macabra comicità. In una sua poesia, La bambina Spazzatura, il finale congiunge l’essere e il non essere, la malinconia esistenziale e la libertà di essere altro.

«Lo spazzino l’amava tanto:

fu un amore di schianto:

Io ti sposo e tu mi aiuti

le disse. Ma fu tardi:

lei s’era già lanciata

in un tritarifiuti»

Eroi e antieroi convivono in un universo interiore nel quale non ci sono solo buoni o cattivi, né solo belli o brutti. Non c’è spazio per la kalokagathia, dove bello è necessariamente anche buono. I suoi, a volte, sono “mostri” malinconici e dolcissimi, traumatizzati e mai piegati al trauma. Personaggi che, come nel molto felliniano Big Fish, prendono le strade meno lucenti, meno ordinate, ma che percorrono vie interiori di crescita e di arricchimento. Non è un caso che molti di loro siano affiancati da un cagnolino, ricordo imperituro dell’amico a quattro zampe che Tim ebbe da piccolo. I cani sono sempre anime comunicative. In Frankenweenie, poi, il cane viene addirittura riportato in vita, ma il suo aspetto, fuori dai canoni della “normalità”, suscita indignazione in tanta “brava gente” che lo insegue per ucciderlo di nuovo, proprio come, prima di lui, il buon Edward mani di forbice.

La vocazione di Burton è creare normalità alternative, tutte valide. Non c’è un anticonformismo fine a se stesso, come quello che piace al pensiero unico contemporaneo, ma un anticonformismo che implica scelte autonome, capacità critica, esistenze fuori dal comune, dotate di una ragguardevole complessità psicologica. Assistiamo spesso all’antropomorfizzazione degli animali, o meglio all’animale che esce dall’ombra dell’uomo, l’animale interiore; assistiamo all’avvicendarsi del doppio nei modi più fantasiosi. Pensiamo al sindaco del paese di Halloween, il quale ha una faccia felice e una terrorizzata che si alternano a seconda delle situazioni, come se la vita fosse tutta lì.

In ogni figura uscita dalla fantasia di Burton ci sono più anime e più condizioni.

«Sì, aveva ai piedi

dieci dita dieci.

Sì, aveva alle mani

dieci dita dieci,

ci sentiva e ci vedeva,

in bagno ci poteva andare,

ma bastava tutto questo

per essere normale?»

scrive Burton in una sua poesia dedicata al Bambino-Ostrica, concepito a Capri durante una cena a base di mitili.

La diversità, in Tim Burton, è un dono sempre, è originalità, è essenza da comprendere. La sua è una lotta costante contro il distacco, l’emarginazione. Sulle spalle dei suoi personaggi pesa il fardello di ciò che sono agli occhi degli altri, la loro fragilità, la loro umanità, perché anche nel suo mondo di pupazzi l’umanità trionfa. E qui si forma la linea di demarcazione tra i sentimenti dell’eroe e quelli dell’antieroe, la contraddittorietà che regge la storia. Da un lato il peso si fa quasi leggero alla luce dell’empatia. Gli eroi reietti di Burton comprendono chi non li comprende e cercano sempre di fare la cosa giusta, a volte chiudendo nel silenzio l’urlo interiore. Gli antieroi, invece, si ribellano, rovesciando le norme sociali, generando caos, comportandosi da dissidenti. Ne La Sposa Cadavere, ad esempio, l’eroe Victor, nonostante l’assenza di volontà, cerca di agire secondo giustizia, anche a costo della propria infelicità, mentre l’antieroe Emily si muove nell’ambiguità e nell’egotismo più sfrenato.

Ebbene, visitare la mostra The World of Tim Burton presso il Museo del Cinema di Torino significa camminare in questo variegato universo di figure e di storie, accanto ai bozzetti originali, alle sue foto scattate negli anni Novanta con la Polaroid 20×24, alle figure in polistirolo verniciato e fibra di vetro e acciaio. Si cammina nei film, si ricordano le storie, si amano i personaggi, si esce assolutamente ebbri di fantasia e di bellezza. È una mostra che vale la pena di visitare. L’unico consiglio è di prenotare tramite internet, cosa non ben pubblicizzata, benché ormai, purtroppo, in re ipsa. Nell’era post-covid, infatti, andare al museo è un po’ come sposarsi: bisogna fare le pubblicazioni. È finito il tempo in cui si girava per la città, si passava davanti ad un museo e si decideva lì per lì di entrare. No. Bisogna prenotare. Si può entrare anche senza prenotazione, intendiamoci, ma si rischia di restare in fila per ore a guardare coloro che hanno prenotato passare sistematicamente avanti, sotto lo sguardo compiaciuto degli addetti allo “smistamento anime”, neanche fossimo alle porte del Paradiso; il loro sorriso nel controllare le prenotazioni sembra dire: «Voi sì che siete meritevoli: avete l’I-Phone, avete l’App. Loro, invece …!». E non è bello, soprattutto se piove.