Storia di Gabriella, attrice in cerca di giustizia
Una famosa canzone del 1930 dice che «la vita può essere molto dolce on the sunny side of the street», e forse qualcuno ancora immagina che il palcoscenico possa essere uno dei luoghi più soleggiati del mondo, e che lassù la vita può essere assai piacevole. Certamente noi che siamo cresciuti all’insegna dei grandi musical americani, noi che abbiamo visto una certa cinematografia d’avanspettacolo, noi che ci siamo entusiasmati nelle platee rivestite dal caldo mantello rosso e oro grazie al fascino e all’estro di artisti di prim’ordine, noi l’abbiamo pensato, l’abbiamo sognato e abbiamo anche sperato, almeno una volta, che quel lato illuminato potesse godere di un sole eterno, intramontabile. Oggi, di quella ribalta illuminata e di quella dolce vita tanto decantata, resta ben poco. Non è bastato prendere atto che, a luci spente e a sipario chiuso, il mondo dello spettacolo fosse affollato da persone che vivono come tutti gli altri, con le proprie piccole felicità e le grandi malinconie; non è bastato capacitarsi che il mondo di fuori, con le sue brutture, potesse penetrare nell’alcova segreta del teatro e contaminare l’immensità di Lear o perfino addolcire le malvagità di Iago.
Il teatro – ormai dopo anni di frequentazione l’abbiamo imparato bene – purtroppo vive anche del suo triste e squallido contrario: e laddove risplende ancora la luce di un sole a tempo determinato, ecco che sopraggiunge, immancabile, l’altro lato of the street, quello più oscuro e crudele, con la sua mancanza di rispetto, le sue scorrettezze, le sue ingiustizie, e, in certi casi, anche le sue illegalità. Ed è qui che si consuma la storia di Gabriella, come quella di tanti altri attori e attrici e tecnici e collaboratori. È una vicenda che riguarda la produzione, primo anello di una catena organizzativa che ha come punto opposto quello della ribalta: l’unico lato che gli spettatori vedono illuminato e applaudono contenti. Gli artisti, quelli famosi, quelli che sfoggiano una vita spensierata, di cui oggi il pubblico conosce intimità e pettegolezzi, sono coloro che alimentano il gossip dei siti internet e dei telegiornali, visi sempre sorridenti di tante immagini pubblicitarie, nomi altisonanti della televisione e a volte anche del nulla. Ma non ci sono soltanto loro. Gabriella non è una star, non frequenta i ricchi set cinematografici, né posa sotto i riflettori dei fotografi di grido, e non sfila sul red carpet. È un’attrice professionista, non più giovanissima, e quindi con un’esperienza di lungo corso sulle tavole di palcoscenico. Nel viso ha marchiato il segno indelebile della buona fede, che tuttavia le ha velato il colore pallido della delusione.
È la delusione per un mestiere in cui sicuramente ha creduto, e malgrado tutto continua a crederci. Le possibilità che le potrebbe offrire il teatro «non me le offre nessun altro», sentenzia convinta sapendo che, in fondo, siamo fatti tutti della stessa sostanza dei sogni. Nel 2019 Gabriella era a Milano, per quindici giorni di repliche di una commedia qualunque con altri colleghi e naturalmente alcuni tecnici. Recitavano, come da contratto, ogni sera; e ogni giorno a ciascuno di loro spettava una diaria (la retribuzione supplementare quotidiana in aggiunta al compenso stabilito), che gli attori percepiscono soltanto in tournée, cioè in quei luoghi, fuori sede, dove per mangiare e per dormire occorre pagare. «E la diaria – lasciamo continuare il racconto a chi l’ha vissuto – l’impresario ce la dava regolarmente, altrimenti avremmo anche potuto rifiutarci di andare in scena; così come ci è stata rimessa la paga fino all’ultima quindicina. Finite le repliche, però, senza saldare i conti, la produzione ha bloccato i pagamenti all’intera compagnia.» In pratica le due settimane di Milano non sono state pagate né agli attori né ai tecnici. Motivazioni? «Nessuna convincente. Le chiacchiere dicevano che attendevano dei soldi che non arrivavano. Sono scuse che si dicono sempre quando ci sono i ritardi, ma che reggono per poco; al massimo fino alla produzione successiva.» Ossia fino all’allestimento di un altro spettacolo che naturalmente necessita di un budget d’investimento. «Certo, ma quando qualcuno l’ha fatto notare hanno risposto…» Intervengo io: «Aspetta, provo a indovinare. Hanno risposto che con gli introiti del nuovo spettacolo vi avrebbero potuto risarcire.» «Esatto!»
La querelle ha preso strade differenti per ogni componente della truppa. Gabriella ha optato per la condotta civile e la trattativa amichevole, altri si sono rivolti a un legale; un altro, con un’iniziativa più spettacolare, s’è presentato negli uffici della produzione, è entrato nella stanza del capo e con molta calma ed educazione – virtù sostenute da un fisico piuttosto corpulento: 190 centimetri di altezza per oltre un quintale di peso – ha staccato i cavi del computer e se lo è portato a casa, dicendo «quando mi paghi te lo restituisco.» Anche questo è teatro!
Dal 2019 al 2022 Gabriella ha atteso con pazienza, ma nessun bonifico è mai pervenuto sul suo conto bancario da parte dell’impresario che, nel frattempo, ha continuato a produrre spettacoli, mietendo altre vittime, anche di prestigio. Poi un giorno è stata lei a chiamarlo. «Sì, avevo bisogno di qualcuno che mi procurasse l’agibilità per uno spettacolo che sovvenzionavo io stessa. Era un mio testo che portavo in scena insieme a un’altra attrice.» In pratica serviva un prestanome che fornisse in via ufficiale un certificato al teatro che attestasse la regolarità contributiva. «Sono documenti che possono presentare soltanto le imprese, anche se i soldi ce li avrei messi io.» E come è andata? «Pensavo che essendo in debito con me si sarebbe comportato correttamente, invece stava per intascarsi anche i miei soldi». E poi? «Poi basta, mi sono stancata di aspettare e di essere comprensiva nei suoi riguardi. Anche io mi sono rivolta a un avvocato ma…» Gabriella mi guarda sfiduciata per un attimo e conclude: «Non c’è niente da fare. In mano agli avvocati anche le cose più ovvie e semplici diventano complicate e incomprensibili. Non mi ci sono più raccapezzata. Ho capito che noi attori non siamo tutelati per niente.» È vero, se un attore sotto contratto si rifiuta di andare in scena è costretto a pagare penali esorbitanti – sono tanti quelli che anche con 40° di febbre restano attaccati al loro personaggio – ma se un produttore non paga, non accade nulla. Nel peggiore dei casi, chiude una società e ne apre un’altra. Un escamotage che fa estinguere ogni debito. E non solo in teatro!