Riflettori spenti sulla Festa del Cinema: determinante lo sciopero di Hollywood
Dopo dieci giorni dedicati al concorso, uno alle premiazioni, e uno per i titoli di coda, i riflettori della XVIII edizione della Festa del Cinema, come accade sui set, si spengono. Ancora un paio di giornate per smontare gli stand che hanno contribuito a rendere più festosa la kermesse e l’Auditorium potrà riprendere la stagione musicale normalmente, come se nulla fosse accaduto. Rivedremo il tappeto rosso l’anno prossimo, speriamo affollato anche dalle star americane che quest’anno sono state costrette a dare forfait. Lo sciopero made in Usa, dopo Cannes e Venezia, ha danneggiato anche Roma, e – diciamo la verità – sono mancati quei film che rendono spettacolare l’arte cinematografica. L’affluenza del pubblico, però, dicono i dati ufficiali, è cresciuta rispetto all’anno scorso. Tuttavia i valori numerici non hanno mai rispecchiato quelli artistici.
C’era una volta il cinema. Chi scrive non ha potuto assistere a tutte le proiezioni, ma s’è impegnato discretamente per riuscire ad avere un quadro generico sulle produzioni di quest’anno. A parte due o tre eccezioni, il livello non s’è rivelato altissimo. La mancanza di fondi economici, purtroppo, si nota sempre più spesso; e, sin dalle prime inquadrature, si intuisce la qualità del prodotto. Nonostante tra i titoli di apertura di ciascuna pellicola siano sempre elencati decine di enti finanziatori, le immagini non riescono a mascherare l’affanno con cui i vari registi affrontano il primo ciak. La patina della miseria, dovuta alle ristrettezze economiche, diventa il filtro dei disagi di oggi, incapace di far sognare il pubblico. D’altronde, se la kermesse si chiama Festa del cinema, non dovrebbe mai privarsi della magia che il cinema contiene, quella lussuria artistica che avvolge lo spettatore e lo accompagna in un gioioso volo di fantasia, anche drammatica ma pur sempre un volo d’immaginazione. Una sola volta mi sono sentito trasportare davvero nel mondo del cinema puro, grazie alla maestria di Francesca Archibugi con La storia della Morante e la sua intelligente passione.
Il disagio della nostra epoca. I film, è vero, oggi insistono spesso su temi d’attualità: argomenti quasi mai felici, e che a volte vengono interpretati anche con eccessiva severità, facendo vedere esclusivamente il lato più drammatico della realtà: Achilles, un paese devastato dal sistema politico; Avant que les flammes s’éteignent, la polizia che uccide un immigrato; Black box, un condominio stordito dall’odio e dal sospetto; Blaga’s lesson, una spietata truffa a un’anziana vedova; Comme un fils, lo Stato che si disinteressa delle violenze inflitte ai piccoli rom; Pedágio, la disperazione di una madre e anche quella di un figlio incompreso; Un silence che nasconde tra le pieghe della famiglia il reato di pedofilia; Sweet Sue, un inno all’assenza di comunicazione. Le pellicole riflettono il malessere della nostra epoca. Ha ragione Isabella Rossellini quando sostiene che il neorealismo di suo padre è tornato più vivo che mai: peccato che manchino i Rossellini e i De Sica e soprattutto quegli occhi disperati dei ladri di biciclette che riuscivano a far commuovere anche un bisonte.
La lista dei vincitori. Riproponiamo il link della pagina del sito del Rome film fest con i nomi e i titoli premiati.
I limiti di un critico. Il 22 scorso ho assistito alla proiezione del film del regista iraniano Farhad Delaram, Ashill, che pure è stato insignito di un riconoscimento speciale della giuria, ma che mi ha tolto completamente la capacità di scriverne. Achilles ha rappresentato, per il sottoscritto, il film incompreso: e non faccio fatica ad ammettere la mancanza, malgrado abbia intuito che l’opera di Delaram fosse sensibilmente apprezzabile. Il dramma era lì, davanti ai miei occhi, ma non l’ho identificato. E me ne rammarico. Non sono riuscito a immergermi in una cultura troppo differente dalla mia; non ho compreso la cupezza dello stato d’animo del protagonista; il linguaggio del suo pensiero culturale; e purtroppo sono rimasto fuori dal contesto drammatico del film. La pellicola – ci tengo a ricordarlo – è «dedicata al popolo iraniano che non accetta più i muri»: questo è un concetto universale, ma le motivazioni che hanno spinto Achille a rifiutare la sua casa, la sua famiglia, e i suoi dolori, mi sono sfuggite. Lui è partito per un viaggio nelle zone più recondite della sua terra, con un bagaglio pesantissimo carico d’angoscia, in compagnia di una prigioniera politica – donna incantevole – ma altro non saprei dire. Sono rimasto fermo seduto a Roma, mentre lui, nella sua fuga, era già lontano e confuso nella polvere.
Quando ai protagonisti scappa. Nel 1999 quel genio di Stanley Kubrick, trovandosi al cospetto di due attori (Tom Cruise e Nicole Kidman), tra i più belli ed eleganti dell’empireo di Hollywood, ebbe il coraggio d’intrufolarsi con la macchina da presa in uno dei momenti più intimi della coppia, quando ci si ritrova insieme in bagno e a lei scappa la pipì. La Kidman all’epoca di Eyes wide shut, era di una bellezza sfolgorante, la sala da bagno pure era signorile e impeccabilmente linda: per la prima volta il cinema d’autore osava riprendere un atto fino ad allora rimasto tabù, tranne al genere pornografico o alle pellicole più scadenti. Durante l’ultimo Festival, per tre volte la stessa scena si è ripetuta sul grande schermo in tre diversi film, e mai si sono riviste le «dorate» caratteristiche adottate da Kubrick. Anzi, tra imprudenti particolari e movimenti goffi, s’è assistito a sequenze piuttosto mortificanti che non aggiungono mai nulla, né alla vicenda, né allo squallore dell’ambientazione (se è questa l’intenzione della regia). Inquadrature simili non hanno poteri immaginifici e nemmeno neorealistici, e a ben pensarci neanche realistici: resta la ripresa di una comune azione abitudinaria che ognuno potrebbe tranquillamente espletare senza la necessità di coinvolgere il pubblico in platea. Inoltre, ognuna delle tre scene s’è rivelata l’identica fotocopia dell’altra: d’altronde, quando scappa, tutti sanno come si fa!
Una nota all’organizzazione. Si è sempre troppo convinti che utilizzando la tecnologia si possa semplificare un banale lavoro di routine, come la prenotazione del posto, per esempio, e le altre competenze non più riservate alle umane capacità: come se fossimo diventati tutti un po’ più imbecilli. Personalmente mi è capitato parecchie volte, utilizzando sempre il sistema informatico messo a disposizione, di riuscire a prenotare una poltrona in una platea apparentemente strapiena per poi constatare che la proiezione fosse riservata a pochi intimi. Nulla di male fin qui, ma rimanere nell’impossibilità di prenotare e non riuscire a vedere un film, sapendo che i posti in sala non sono mai tutti occupati, potrebbe essere un problema facilmente risolvibile se all’ingresso delle sale gli addetti potessero usufruire del diritto di poter contare le persone che effettivamente entrano e quindi regolarsi sul numero degli eventuali spettatori da lasciar passare. Finché però si continuerà ad affidare alla tecnologia intelligenza ed educazione, ci saranno sempre meno spettatori presenti e molta più aridità dilagante. Il malessere silenzioso che più ci sta torturando.