Un viaggio nel circo contemporaneo come spazio poetico, comunità in movimento e linguaggio del presente, tra corpi in ascolto, visioni condivise e la scelta di abitare il rischio come forma di libertà.
Portatrice di una visione che intreccia corpo, pensiero e comunità, Fabiana Ruiz Diaz è una delle figure più significative del circo contemporaneo italiano ed europeo. Artista multidisciplinare e co-direttrice del SIC – Stabile di Innovazione Circense, ha costruito il suo percorso attraversando geografie, linguaggi e forme di creazione, fino a fare dello chapiteau un luogo poetico del possibile. In questa intervista ripercorre il cammino umano e artistico che l’ha condotta alla direzione di OPS! – Rassegna di Circo Contemporaneo, raccontando un’idea di circo come spazio di ascolto, ricerca e relazione, capace di dialogare con il presente attraverso il corpo, il rischio e la meraviglia.
Oggi sei co-direttrice del SIC – Stabile di Innovazione Circense: che cos’è per te questo luogo e quale significato ha nel tuo percorso artistico e umano?
Il SIC è un centro internazionale di produzione multidisciplinare dedicato al circo contemporaneo. Nasce attorno al Teatro Feronia di San Severino Marche – un luogo di straordinaria bellezza e memoria, riconosciuto come patrimonio UNESCO – e cresce in dialogo profondo con il Comune di San Severino Marche. È pensato come uno spazio stabile di ricerca, creazione e visione, dove il tempo dell’arte può dilatarsi e sedimentare. Il progetto si è sviluppato grazie anche alla collaborazione con Catherine Magis, fondatrice e direttrice di UP – Circus and Performing Art di Bruxelles: un incontro che ha creato un ponte naturale tra l’Italia e il panorama europeo, intrecciando pratiche, sguardi e possibilità. Per me il SIC è prima di tutto un luogo vivo. Un laboratorio permanente, una casa aperta. Un punto d’incontro dove il circo non è soltanto spettacolo, ma un linguaggio in continuo movimento: capace di dialogare con il teatro, la danza, la musica; di interrogare il presente attraverso il corpo, il gesto, lo spazio. Un luogo dove il circo respira, si trasforma e continua a farsi domande.

Tornando indietro, come sei arrivata al circo? Qual è stato il tuo punto di partenza artistico?
Assolutamente sì. Prima di tutto c’era il desiderio del viaggio: mi attiravano le culture lontane, le musiche tradizionali, i popoli e i loro rituali quotidiani. L’artigianato è stato il mio primo linguaggio artistico: lavoravo l’argento, sceglievo turchesi sudamericani, costruivo gioielli come piccoli racconti da portare sul corpo, che poi incontravano altre vite nei mercati. Non ero un’artista di strada nel senso convenzionale, non c’erano numeri o palcoscenici, ma c’era creazione, gesto, relazione. Vengo da una famiglia in cui l’arte respirava naturalmente – mio padre e mio nonno cantavano – eppure, come donna, sentivo spesso dire che il mio posto sarebbe dovuto essere altrove: una casa, studi “seri”, un futuro già scritto. È stato proprio attraversando il mondo, con le mani sporche di metallo e pietre, che ho capito di poter esistere fuori da quel modello. Lì è nata una libertà silenziosa, concreta, che ancora oggi guida il mio cammino artistico.
Quando è scattata la scintilla del circo?
Nel 2002, in Cile, il destino mi ha fatto incontrare un giovane giocoliere di straordinario talento. Io frequentavo le convention circensi, con i miei gioielli come compagni di viaggio: li modellavo, li vendevo, e intanto osservavo. Guardavo il suo allenarsi, il suo giocare serio, la dedizione quotidiana fatta di cadute, ripetizioni e ostinazione. Poco a poco, senza progetto né ambizione, ho iniziato anch’io ad allenarmi. Era un movimento naturale, guidato dalla curiosità, dal desiderio. Il corpo ha parlato prima della mente. E così quella pratica intima, nata dall’osservazione e dal gioco, ha trovato la sua forma pubblica, trasformandosi in mestiere. Non ho scelto il circo: è stato il circo, paziente e silenzioso, a scegliere me. Quel piccolo seme di curiosità è cresciuto in passione, e la passione, lentamente, si è fatta arte. Un processo fluido, organico, come solo le cose autentiche sanno essere.
Poi sei andata in Europa per formarti
Sì: la Francia, la Spagna e il Belgio — tra i molti paesi in cui ho vissuto — sono state tappe decisive. Luoghi di passaggio e di radicamento insieme, dove ho incontrato persone indimenticabili e veri maestri: Micheline Vandepoel, Louis Spagna, Slava, Roman Fedin, Catherine Magis (direttrice artistica) di Espace Catastrophe, uno spazio di residenza e creazione che è diventato per noi una casa creativa. In quei luoghi ho affinato non solo la tecnica circense, ma anche la presenza scenica, il gioco, l’ascolto. La danza e il metodo Lecoq sono diventati strumenti fondamentali per abitare la scena, per stare nel corpo e nel tempo. È lì che hanno preso forma i nostri primi spettacoli:“Scratch and Stretch”, come atto iniziale di ricerca e sperimentazione, e subito dopo “20 Decibel”, il lavoro che ci ha portati sulla scena internazionale; nato dall’incontro con un regista belga-inglese, questo spettacolo ci ha aperto nuove porte e, soprattutto, ci ha insegnato a pensare in grande.
E da lì è nata la scelta di avere uno chapiteau tutto vostro?
Esatto. Non volevamo essere semplici ospiti, attraversare i teatri come presenze effimere. Desideravamo un luogo che ci appartenesse, uno spazio plasmabile, capace di accogliere un mondo costruito attorno al circo. Così è nato lo chapiteau: una tenda, fragile solo in apparenza, che potesse muoversi con noi ma anche diventare casa. L’abbiamo immaginata a Bruxelles, con lo sguardo sempre rivolto all’Italia. È così che è nato il Circo El Grito. Per me è stato un gesto insieme utopico e concreto: ferro, corde, picchetti piantati nella terra — e insieme poesia, visione, necessità. Uno spazio dove il circo potesse respirare, creare comunità, inventare linguaggi. Questa scelta non sarebbe stata possibile senza la tradizione del circo italiano: le dinastie storiche, il sapere artigianale della costruzione delle tende, la conoscenza tramandata dei materiali e dei gesti. È un’eredità silenziosa e solida, che sostiene il nostro lavoro e continua a dialogare con il presente.
Parli spesso del circo tradizionale: qual è il tuo rapporto con quella eredità?
Il mio rapporto con il circo tradizionale nasce da un rispetto profondo e da una costante curiosità. Dietro quelle generazioni di artisti nomadi e instancabili ci sono famiglie che hanno dedicato la vita a un mestiere totalizzante, dove gli animali erano parte integrante di una storia umana complessa, vissuta con un’altra coscienza, in un altro tempo. Non sono contro il circo classico, ma credo che ogni forma d’arte, per restare viva, debba avere il coraggio di trasformarsi. Oggi abbiamo occhi diversi, una responsabilità nuova: sappiamo che alcuni modelli possono essere problematici e sentiamo il bisogno di immaginare percorsi nuovi. Il circo contemporaneo non cancella il passato: lo accoglie, lo attraversa, lo rilegge. Ne raccoglie l’eredità e la trasporta altrove, in un presente più consapevole, in un futuro possibile, dove il gesto e il corpo continuano a raccontare la bellezza del rischio, dell’equilibrio e della meraviglia.
Nel tuo lavoro creativo, come nasce uno spettacolo?
Tutto parte dal corpo e dall’attrezzo: trapezio, tessuto, corda… lo ascolto, lo esploro, lo provo. Intorno a quel gesto comincio a immaginare lo spazio, la luce, la scenografia: non solo come sfondo, ma come respiro vivo che dialoga con il movimento. Costruisco piccoli quadri, li attraversa la musica, il gesto, e piano piano emerge la storia. Non scrivo mai prima: la drammaturgia nasce dall’esperienza fisica, dagli errori, dalle attese, dai dettagli che il corpo suggerisce. Il materiale stesso indica la direzione, come se sapesse già dove vuole andare. Il mio primo spettacolo da solista, “LiminaL”, è nato così: da una solitudine reale, dopo una separazione. Ho trasformato quel vuoto in volo, in memoria, in presenza scenica. È stato un modo per attraversare ciò che ero e abbracciare ciò che stavo diventando. Ancora oggi, quella ricerca di autenticità e presenza è al centro del mio lavoro.
Una scelta registica che sorprende molti spettatori è l’illuminazione del backstage durante lo spettacolo. Perché?
Si è voluto far emergere il lavoro artigianale delle macchine sceniche e la costruzione paziente del sogno. Il backstage non è qualcosa da nascondere: è parte viva della narrazione. Il pubblico viene coinvolto, vedendo chi tende le corde, chi regola gli attrezzi, chi cura la meccanica invisibile che rende possibile il sogno in scena. Il gesto artistico non è solo ciò che accade sotto la luce, ma anche tutto ciò che lo rende possibile. Un atto immersivo a 360 gradi e, al tempo stesso, un riconoscimento verso i tecnici, spesso silenziosi e nascosti, senza i quali nessun volo potrebbe mai esistere.
Come descriveresti la forza del circo contemporaneo, rispetto ad altri linguaggi performativi?
La sua forza sta nella verità dell’individuo. Il circo contemporaneo non nasce dal desiderio di inventare qualcosa di totalmente nuovo, ma dal coraggio di abitare ciò che già esiste in modo sincero. Molti linguaggi del teatro e della danza affondano le radici nei movimenti degli anni Settanta; ciò che cambia, oggi, è il corpo che li attraversa. Nel circo contemporaneo ogni artista porta in scena se stesso: il proprio peso, la propria fragilità, il proprio modo unico di rischiare. Non c’è maschera che tenga, perché il corpo non mente. Se l’emozione è autentica, arriva al pubblico senza filtri. È un gesto profondamente umano e universale: cercare l’equilibrio, affrontare il vuoto, trasformare il rischio in poesia. È lì che il circo diventa linguaggio condiviso, esperienza comune, specchio delicato di ciò che siamo.

Grazie a un percorso costruito con rigore, sensibilità e una dedizione profonda al linguaggio del circo contemporaneo, Fabiana Ruiz Diaz è stata chiamata oggi a dirigere OPS! – Rassegna di Circo Contemporaneo 2025, in programma dal 27 dicembre al 6 Gennaio 2025 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Un incarico che è insieme responsabilità e riconoscimento: il segno di un lavoro paziente e coerente, maturato negli anni tra l’esperienza artistica di Circo El Grito e la visione progettuale del SIC – Stabile di Innovazione Circense. Una fiducia che conferma il valore di una ricerca capace di coniugare poesia, rischio e pensiero, portando il circo a dialogare con il presente e con il pubblico di oggi. «L’edizione di quest’anno di Festival Ops! nasce dal desiderio di portare speranza, leggerezza e libertà, creando spazi in cui ritrovarsi come in famiglia, tra amici, in comunità e con nuove possibilità di incontro. Un invito a credere, a divertirsi, a guardare la vita da altre angolazioni.» Ringrazio Fabiana Ruiz Diaz per il tempo dedicatomi, per avermi condiviso la sua storia, la sua visione del circo, il suo entusiasmo nel discorso artistico circense che porta in giro per il mondo.
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OPS! – Rassegna di Circo Contemporaneo 2025 – dal 27 dicembre al 6 Gennaio 2025 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, in copertina: Fabiana Ruiz Diaz dallo spettacolo “Luz De Luna”
Foto ©Grazia Menna




