Che ci fanno due reduci da un precedente matrimonio, vedovi entrambi, in un nuovo rapporto di coppia, lui nella casa borghese di lei, lui manovale in pensione, lei algida rampolla di famiglia benestante decaduta? Si odiano, naturalmente, le differenti ascendenze e formazioni in rigurgito quotidiano, ad avvelenare la convivenza, tanto più che ciascuno non risparmia all’altro la costante rievocazione della solarità del precedente perduto amore e le schiere di differenze nei gusti e nei modi di essere che li separano.
Anzi, li dovrebbero separare.
Questa la trama di fondo della splendida riduzione teatrale, curata da Fabio Bussotti, del racconto di Georges Simenon “ Il gatto”.
Niente di nuovo, a prima vista, ma il racconto procede col passo inesorabilmente coinvolgente, scandito dall’ottima scelta musicale di sottofondo, proprio come una trama noir, prendendo le mosse da un evento che potrebbe sembrare marginale: la morte dell’amato gatto di lui, Emile. L’uomo è convinto che a farlo fuori, con una dose di veleno, sia stata la nuova moglie Marguerite, che, manco a dirlo, odia quel gatto, un esemplare randagio della razza felina, così pericolosamente somigliante al suo affezionato padrone, esemplare ritenuto laido e disprezzabile della razza umana, troppo differente dal suo amore precedente, un raffinato pianista scomparso troppo presto per non aver lasciato nella apparentemente consolabile vedova una coda di frigidità e di vago disprezzo per il genere.
Lui no, lui, Emile (Elia Schilton) la consolazione non l’ha monumentalizzata come la moglie, l’ha frammentata –come si dice facciano gli uomini- in tante sentine del bisogno: alla fornicazione- neghittosa la nuova moglie- presiede la conturbate barista Nelly, presta a soddisfare le sue necessità in una rapida alzata di gonna, all’urgenza di calore quotidiano le lisciate sul pelo dell’amato gatto, al ricordo delle perdute danze domenicali, il rimpianto dell’amata moglie scomparsa. Insomma non c’è niente che tenga unita la nuova coppia. Se non fosse per l’odio, che alla fine si rivela scintilla e collante straordinario per l’insorgere e per la tenuta di certe unioni coniugali. La coppia riversa le rispettive, irriducibili differenze e idiosincrasie nella vita di tutti i giorni, lentamente svuotandola di significato. Come accade però in fisica per la legge dei vuoti, lo spazio quotidiano in un rapporto è riempito da quel denso silenzio che spesso imprigiona le coppie. Così lo spazio se lo contendono le cadenzate stovigliature su piatti sgraziatamente riposti sul tavolo di un sommario pasto, con l’obbligo della condivisione e i bigliettini che i due si scambiano per rimediare all’incomunicabilità che si sono imposti.
L’ostilità cresce a dismisura, quando Emile si decide a vendicarsi dell’oscura scomparsa del suo amato gatto, spennando, fino a finirlo, il diletto pappagallo di lei. Il piano narrativo è chiaro a quel punto: l’odio è agito transitivamente sui rispettivi affetti dell’altro, e non per una questione – pare di capire- di mancanza di coraggio tra i due contendenti, ma semplicemente perché conservare in vita l’oggetto dell’odio è il nutrimento di questo rapporto: perché il litigio, come sosteneva Borges, non è altro che una forma irrinunciabile dei nostri tempi.
L’allestimento riserva sorprese in questa che sembrerebbe solo un partita a due, e proprio nell’evasione dalla claustrofobia di questo legame offre il meglio di sé, allorché l’azione (e soprattutto la bravissima Alvia Reale, capace di riporre in un attimo la frigidità del suo personaggio, per vestire la carica erotica richiesta) si dispone a una mutevolezza improvvisa, trasferendo il racconto dalle parti della inebriante Nelly o nei panni della gaudente Angele, prima moglie di Emile.
Un’evasione questa volta reale Marguerite la predispone, avviando una triangolazione casalinga –per carità solo di natura confessionale- con una vicina di casa, una specie di bacchettona (perfettamente interpretata dalla giovane Silvia Maino) con la quale riuscirà a mettere in fuga a colpi di rosario lo sventurato Emile. Ma la troppo forte vocazione a costruire rapporti infermi, la precipita, anche nell’ormai duale rapporto con la vicina di casa, dentro la “sindrome dell’arto fantasma”, acquisendo, lei per prima, le stesse abitudini disgustose che lamentava nel marito, ormai temporaneamente uscito da casa.
Detto dell’adattamento (audace anche nell’alternare sprazzi diegetici al dialogo, in omaggio alla ispirazione di partenza dal racconto), la forza dello spettacolo risiede soprattutto nella bravura dei suoi interpreti, ma il primato è assolutamente condiviso dalla regia di Roberto Valerio, capace di creare una tensione sempre attiva nello spettatore, anche grazie a un disegno luci perfetto per la scansione degli spazi, in sintonia sempre con gli effetti sonori e la musica di accompagnamento.