Un’indagine nella propria esistenza, un tentativo estremo per restituire al dolore il suo linguaggio
Che il dolore si incastri con l’obiettività di un accaduto lacerante, o che sia un fumo che impercettibilmente si ostina a macerarci dall’interno, ha bisogno di essere detto, tradotto in linguaggio.
È a partire da questa esigenza intrinseca che nasce Diario di un dolore di Francesco Alberici, e con Astrid Casali, progetto teatrale in quattro libri in scena al Teatro Basilica di Roma dal 16 al 19 gennaio e che, a partire dall’omonimo libro di C.S. Lewis si declina come mappatura estrema della sofferenza, sulla ricerca diagnostica delle sue tracce, visibili e invisibili, ululanti o soppresse nel silenzio.
Articolata come dialogo tra divergenti flussi di coscienza, la pièce trasforma la sofferenza in rappresentazione, lo fa per concederle finalmente un linguaggio, un nome, per riconoscerla come tale, per strapparla dal brusio indistinto dov’era rimasta, per esporla e renderla consapevolezza.
Non c’è allora finzione ma solo la volontà, finora taciuta, di cambiare l’osservatorio attraverso cui osservare la propria esistenza, collocarsi in un luogo più vicino, più esposto, più estremo perché condiviso.
Sulla paura, o di un uomo dal volto bendato
Nessuno mi aveva detto– scrive C.S. Lewis- che il dolore assomiglia così tanto alla paura. Si spengolo le luci, di affievoliscono le note dei Joy Division che fino ad un attimo prima avevano visto Astrid e Francesco perdersi e danzare sul palco, rimane solo il ritratto di un uomo bendato, la copertina di un vecchio numero di Frigidaire, che per anni è stato per l’uomo il solo spiraglio attraverso cui osservare il proprio dolore.
Se per Astrid, la sofferenza è affilata come una perdita, il pianto si tramuta nello scherzo, nella mistificazione che protegge dalla violenza del suo impatto, per Francesco è la fitta che non può aggrapparsi a nessuna tragica motivazione, è il groppo invisibile, è come una volpe, qui sotto lo sterno che da anni mi rosicchia il plettro solare. Quel ritratto gli somiglia, lo guarda giorno dopo giorno, vi vede un sé stesso coperto, e non si può comprendere dietro quella copertura se stia ridendo o piangendo.
Eppure, tanto per la bambina che scrivendo tentava di parlare con suo padre, quanto per il ragazzo che cercava in un dipinto le radici della sua tristezza, il dolore si rivela acuminato come la paura, non esiste per lui alcun righello né unità di misura. E quanto più la paura impedisce di osservarlo da vicino, tanto più esso appare compresso, smanioso di un’epifania che, liberandolo ne esponga la portata.
Per sottrazione, dissimulazione, o per eccesso
Il babbo è morto. Quando Astrid sentì queste parole non riuscì a provare nulla; quel dolore così accovacciato all’interno, così vivo, non si era deciso ad uscir fuori né a trovare nell’epifania gelida della voce dall’altro capo del telefono, il detonatore per esternarsi, per fluire.
Neanche le lacrime sono la giusta misura, talvolta è più immediato versarle per finta che per davvero, e spesso le migliori rappresentazioni del dolore sono determinate dall’atto di fingere di farsi male senza poi farsi male per davvero.
Così i due personaggi escono per un attimo dalla loro storia, interrompono la narrazione e si predispongono a giocare al gioco del dolore: si può fingerlo per sottrazione, plasmarlo per dissimulazione, esacerbarlo in una rappresentazione per eccesso, si può in seguito tentarne una misurazione nel confronto razionalizzante con i restanti possibili dolori, ma nessuna regola sussiste davvero quando nella verità, esso esce fuori.
Come argine al crollo totale
Ma forse è bene partire dall’inizio, che poi è anche il senso. Quale senso vi sia nella trascrizione del dolore, nell’auto-descrizione della propria sofferenza, e ancora, quale senso abbia metterlo in scena, trasformare il dolore nel protagonista della storia, estrinsecarlo dal già accaduto, rievocarlo sul palco.
La risposta vive forse su un piano che travalica per grandezza, anche il discorso sulla sofferenza stessa, e che coincide con il senso dell’arte, dell’atto scenico, della scrittura, come atto di catarsi dinanzi a sé stessi, e che nasce forse dall’archetipica e misteriosa necessità di offrire una lingua e un nome all’oggetto del nostro tormento.
Parlo del mio dolore perché vocalizzandolo tento di comprenderne la forma, lo traduco nel mio linguaggio perché ho bisogno di collocare ciò che più mi si presenta come immenso, atroce e invalicabile, lo scrivo e lo rappresento come argine al crollo totale.
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Diario di un dolore – Tratto dall’omonimo libro di Lewis e dall’autoritratto di Franz Ecke – un progetto di Francesco Alberici – con la collaborazione di Astrid Casali, Ettore Iurilli, Enrico Baraldi – In scena Astrid Casali e Francesco Alberici – Produzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione – In collaboraizone con TPE Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi, Murmis, Olinda, Lab 121 – Compagnia esecutrice GLI SCARTS ETS – Teatro Basilica dal 16 al 19 gennaio 2025