La società che origlia, borbotta e sorveglia: giudici che divorano, roditori che bisbigliano.
Chi ha scelto di recarsi al Piccolo Teatro catanese, durante i giorni conclusivi della quarta edizione del Fringe Off Festival, ha avuto modo di esperire un’opera che arriva fin dentro le viscere, intimamente. La percezione dello spettatore è quella di trovarsi sin da subito in una sorta di spazio contemplativo, in connessione con il nostro “io” più profondo e occultato, riposto nell’angolo più latente della nostra anima. Un’opera individuale e insieme collettiva, allorché il nostro “io” viene posto in relazione con il mondo, come un bersaglio a cui scagliare delle frecce, una ad una, instancabilmente.
Un’opera dal titolo L’ombra del gelsomino e noi è dietro quest’ombra che andiamo a guardare. L’ombra non è altro che il male in tutte le sue innumerevoli forme, il male di cui rivelarne i codici, in una decodifica che si compie attraverso il linguaggio del teatro. Quest’ultimo consente di tratteggiare il profilo di una società di individui che osservano e di quelli osservati, di individui che giudicano e di quelli giudicati, di individui che disapprovano e criticano e di quelli disapprovati e criticati. Accusati, disdegnati, rifiutati. Colpiti e affondati. Una società di sbagliati in mezzo a chi crede di essere giusto. Una società maligna che guarda alla pelle dell’altro come se fosse la sua, come se la conoscesse. Ma loro non sanno, non possono sapere. Sanno soltanto quello che fanno, questo lo sanno. Eccome se lo sanno. E ridono. Eccome se ridono. E i denti aguzzi che si intravedono, gli stessi con cui sbranano. Eccome se sbranano. Ingiustamente.
A partire da una scena abitata da tre attori, Alice Canzonieri, Federica Gurrieri, Giovanni Peligra, a loro volta guidati dalla sapienza autoriale e registica di Alessandro Romano, ci introduciamo nelle fenditure di una società di sentenze e appellativi; e i termini, i “proiettili” più spregiativi e martellanti e le ingiurie, le più diffamanti; e i nomignoli, le insinuazioni, le maldicenze e le più false menzogne, tanto più screditanti, quanto più infondate, affibbiate e incollate addosso come mastice. La società calunniante di pettegolezzi e dicerie: quel pietoso e appagante mormorio praticato su chiunque passi sotto le loro lingue biforcute come un bisturi e i loro occhi infuocati e investiganti.
Occhi magmatici e asfissianti che imprigionano senza le sbarre, che esaminano e che controllano, indagano e analizzano, ispezionano e scrutano. Occhi che censurano, bramosi e assetati. Occhi che (s)valutano. Occhi divertiti che sanzionano e che, disapprovanti, condannano senza fine. Ed è così che, lasciando che il “porgi l’altra guancia” faccia il suo corso, si vorrebbe nel frattempo non esistere, essere come dei fantasmi, corredati del potere dell’invisibilità, l’unico per tenere lontane e sopportabili le pretese di quelle occhiate giudicanti e opprimenti, strangolanti e sbeffeggianti.
Sbeffeggianti nella messa al bando e nell’indice meschino e crudele, presuntuosamente, puntato contro, anch’esso un gesto significante, l’espressione dell’intolleranza e del pregiudizio perpetuati nel tempo, il segnale decifrabile dell’emarginazione e dello scherno, rivolti a zimbelli che non hanno scelto di essere tali: i brutti, le ragazze madri, i disabili, gli omosessuali, gli inadeguati, i menomati, gli invalidi, i grassi, i troppo magri, chi indossa gli occhiali, chi porta i capelli lunghi e chi li preferisce corti, chi veste in un modo e chi veste in un altro, chi cammina con un’andatura difforme e chi semplicemente vive e respira.
A tutti loro e a chi è se stesso nella sua unicità viene “vomitato” il veleno più letale, quello lanciato come una fionda e sputato come i lama al circo. Un “circo” dove solo ai clown è riservata la mortificazione, nella consuetudine di modelli imposti e nell’ostinata legge della perfezione: il vertice assoluto, l’apice più alto, la quintessenza della società, senza di essa nessuna approvazione. Nessuna approvazione per quelli destinati ad essere pedine di un gioco ripugnante a cui non hanno voluto mai giocare.
Il disvelamento di queste verità ineludibili, che ci concediamo di estendere anche all’uso odierno dei social network alla stregua della vita fuori, ci viene paradossalmente consegnato attraverso una dimensione onirica e spettrale, a tratti persino funerea e misteriosa, come se quello spazio contemplativo, di cui sopra, divenisse anche un luogo intrappolante e minaccioso, ipnotico e caotico, di sospensione e di astrattezza. Da una parte un’allucinazione, un sogno; e poi, dall’altra, lo schiaffo, l’urto, l’incubo: la realtà. Le parti di un tutto “sensoriale” avvolto dall’inizio alla fine da un impianto sonoro avvolgente e al contempo straniante ed enigmatico, un fattore decisivo per un’esperienza che ha tutti i requisiti per essere denominata “immersiva”.
Uno spettacolo impattante e maestoso che, mediante l’identificazione con gli interpreti, disseppellisce il nostro vissuto, per riportarlo alla luce, la stessa luce che avvolge il palcoscenico disegnando da sola una scenografia quasi inesistente. Dall’ascolto alla visione, dal buio al bagliore, dal silenzio alla parola, dalla penombra alla rivelata ombra: l’ombra dietro petali di gelsomino, l’ombra del fardello del giudizio. Il giudizio, la cui gratuità all’inizio squarcia, lacera, graffia, spacca le ossa; all’inizio diventa il condizionamento che schiaccia, il baratro, la voragine, il precipizio e poi l’insospettabile forza, la via d’uscita, la libertà, la pace. Dal dolore alla consapevolezza. Dall’inghiottimento allo scivolamento, come acqua che scorre sui sassi.
Infine, una drammaturgia universale, quella presentata in queste righe, che alterna il dialogo al monologo, la metafisica alla poesia, la letteratura alla filosofia, tirando in ballo Proust, la natura e la magia che si cela all’interno dei fiori. Questi ultimi, oltre alla bellezza e alla sacralità, possiedono un particolare potere che forse è lecito chiamare “intelligenza”, un’intelligenza dalla quale possiamo trarre ispirazione: l’insegnamento di “germogliare” anche dove è annidato il male, di andare oltre il vortice dei giudizi, lasciando che si dissolvano come polvere nel vento, come chiasso nel vuoto.
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L’ombra del gelsomino – Autore e regia: Alessandro Romano – Interpreti: Alice Canzonieri, Federica Gurrieri, Giovanni Peligra – Luci: Alessandro Romano – Musiche: Giuseppe Guarnieri – Costumi: Alice Canzonieri, Federica Gurrieri – Produzione: Art Evolution – Fringe Catania Off International Festival – Piccolo Teatro della Città (dal 23 al 26 ottobre 2025)





