È una melodia russa medievale a introdurre “Il delitto dei fratelli Karamazov” di Luigi di Majo: in scena lo scorso 18 Luglio presso I Giardini della Filarmonica romana, lo spettacolo è stato presentato all’interno della rassegna teatrale ”I solisti del teatro”.
Tre tavoli bordeaux troneggiano al centro della scena: strutturata come aula di un tribunale, sarà luogo dove si svolgerà il processo di Fëdor Karamazov.
L’evidente riferimento all’opera di Doestoevskij, da cui la rappresentazione è liberamente tratta, non intende infatti ripercorrere l’intera vicenda, ma soffermarsi sul momento cruciale del processo.
Dopo l’iniziale lettura di un frammento dell’Adelchi di Alessandro Manzoni da parte del regista Luigi Di Majo, il processo ha inizio ma del romanzo russo sembra condividere solo la trama.
Una compagnia di amatori
Se infatti l’opera di Doestoevskij si presenta come come dramma spirituale capace di sondare il tormento dei personaggi che la abitano, lo spettacolo ad esso ispirato non riesce a restituirne la profondità.
“L’udienza è aperta” – accusato dell’omicidio del padre Fëdor, Dmitrij, il figlio primogenito, prende la parola dichiarando la sua innocenza.
L’eredità negata, la competizione amorosa per Grušenka: l’odio per il padre è per Dmitrij incommensurabile ma non è lui l’autore del patricidio.
Eppure la logorante contraddizione che pervade l’animo del protagonista resta nello spettacolo inespressa.
Sebbene la compagnia di “Le toghe in giallo” si componga di professionisti forensi solo amatori di teatro, sebbene la non professionalità degli attori potrebbe rappresentare una giustificazione per la loro resa, il testo risulta in questo caso “inarrivabile”.
I componenti sembrano essersi cimentati questa volta con un’opera abissale della quale rappresenta uno sfregio, rovinare la complessità.
Sfortunatamente, non è solo la resa attoriale a fare acqua ma l’intera struttura spettacolare, poco organica e basata su una ripetizione che rischia di distogliere l’attenzione sulla scena.
La struttura e i personaggi
Basato sull’alternanza tra il racconto del testimone di turno e la risposta di Dmitrij di fronte alla condanna, lo spettacolo assume la struttura di un dialogo prevedibile, sempre uguale a se stesso.
Non c’è infatti struggimento nella voce del protagonista, né si intravede nella sua interpretazione la distillata e tormentata riflessione interiore che lo condurrà a nuove abissali consapevolezze.
Non solo, nessuno dei personaggi riesce ad essere riflesso, sebbene accennato, del personaggio che interpreta.
Non vi è accenno delle teorie sulla necessità del delitto dalle quali è istigato Smerdjakov, non vi è traccia dell’angoscia di Ivan quando si strugge nell’eventualità di dichiarare il fratello colpevole.
La recitazione di ognuno dei personaggi, molto spesso supportata dalla lettura delle diverse battute, finisce così per appiattire la totalità dell’universo dostoevskiano trasformandolo in una sorta di crime novel priva di peculiare interesse.
Uno alla volta i testimoni prendono la parola e talvolta gli stessi monologhi rivelano piccoli errori sintattico-testuali, forse motivati dall’emozione in scena.
Non c’è male né scorrettezza nella rappresentazione amatoriale ma la sua partecipazione ad una rassegna dovrebbe essere forse ponderata.
Con: Ferdinando Abbate, Claudio Cartoni, Luigi di Majo, Luciano Faraone, Maria Grazia Giacchetta, Elisabetta Magrini, Raffaella Monaldi, Pino Nazio, Beatrice Palme, Roberta Ruta ed Edgardo Valentini.