Il delirio della tradizione tra sacro e profano

Donne al macello: il rito della maschera criminale

I testi-spettacolo di Valentina Esposito – e questo Mercoledì delle ceneri (Roma, 23.11.2024) non fa eccezione – sono uno spettacolare fiume in piena di sensi e sovrasensi, dove si intersecano a fiumana più messaggi, e individui e massa, aggregati e disaggregati con violenza tragica e primordiale. Sono appunto quello che il teatro dovrebbe essere: testi (e i suoi sono potenti) che diventano testo scenico, uno spettacolo di energie di cui è difficile rendere conto descrittivamente, se non per scintille.

Giancarlo Porcacchia e Claudia A. Marsicano

Tutto è metafora, ma metafora che diventa carne viva.

    Fuori è tutta una curva, morbida, piena. Ma ha uno scheletro di ferro

    Non puoi ammazzarla. Non si rompe, pure se la sbatti. 

    Magari cascano pezzi fuori .. Ma non succede niente. Dentro non  

    se rompe. Non ti preoccupare, che non le fai male .. E’ DI FERRO ! 

    Resiste a tutto. Puoi darle fuoco. Brucia in superficie. 

    Ma dentro non brucia

Così ci parla l’uomo in nero (un prete? Un capo banda?) che apre lo spettacolo, presentando la sagoma che torreggia dietro, nella penombra, coperta da un telo, e montata su una bassa impalcatura.

Col senno di poi appare una descrizione realistica della ‘pupazza’, il manichino in profilato di fil di ferro che sarà al centro della processione del martedì grasso, che come è uso del carnevale, capovolge il sacro in profano, il nobile in plebeo e carnale, in antipotere. E qui sante e madonne in femmina popputa.

E’ il rovescio della processione dei santi. 

E’ il martedì grasso, che conclude lo scatenamento carnevalizio – la festa dei folli – come  nelle antiche dionisiache e nei saturnali, dove, finito lo scatenamento, si brucia Re del Carnevale capro espiatorio che con il suo sacrificio libera la comunità da tutti i mali.

Catarsi e scatenamento degli istinti, rito di fertilità selvaggio, prima della purificazione.

Ma cos’è in realtà che è di ferro, che non si distrugge?

E’ la femmina senz’anima, come vittima sacrificale del patriarcato, come preda destinata, carne maledetta. Le donne, si sa, non hanno anima, non hanno diritto alla sofferenza, né tampoco alla parola sulla medesima.

Ed ecco allora che in modo perverso il paese celebra nella pupazza la giovane dai capelli rossi misteriosamente scomparsa, ma probabilmente ammazzata in riva al fiume. 

La romantica, la ribelle.

La celebra e ne fa mercimonio, sposando religione patriarcato e capitalismo (del resto il patriarcato è capitalismo sessuale). 

Ed è allora lo stesso disperato amante della scomparsa, ormai vecchio, ma ancora in attesa di un corpo da piangere, che tuttavia si fa direttore d’orchestra della cerimonia, che deve portare denaro.

Sembra così che, all’ombra della pupazza, nel cui scheletro una giovane innocente è forzata ad entrare per indossare la maschera criminale che non potrà più togliersi (destino delle donne, appunto merce carnale e criminale), sembra si celebri, nella festa, il mercimonio delle femmine, a cui pure il prete può partecipare.

E anche qui… La maschera criminale.

Metafora della crudele vox populi delle femmine del paese, per cui cercare l’amore è ribellione e pazzia, sfrontatezza del desiderio, mentre essere venduti la prassi, la regola.

Criminale apparirebbe dunque la rossa che, venduta dai genitori ad un vecchio, rifiuta, e tenta la fuga d’amore.

I boschi, il fiume, lo sparo? Si sa. Se vai nel bosco… 

L’uomo è cacciatore. L’uomo uccide. Se non ci vai, non muori.

Del resto il dionisiaco, il mercimonio, il fuoco alla pupazza, da quale male devono purificare il paese? Certo dalla violenza, ma anche dal desiderio represso che tale violenza alimenta, e che nelle donne diventa (reprimendo la tristezza) rancore, invidia, collaborazione omertosa, e non solo, alla violenza maschile.

Se così in più di una scena le donne si sfrenano in danze sessuate intorno al maschio violento, tra esse troneggia per intensità ed ambivalenza una capogruppo – incarnata in modo sublime da Claudia Marsicano (Premio UBU nel 2017) – che usa la sua opulenza fisica per dare truculenza e strabordanza alle sue tempeste interiori.

Così ride satanica, seduta in trono sotto la pupazza, si alza e danza bacchica, cavalca sfottendolo il femminiello cresciuto che bimbo aveva avuto visione della morta. Ma anche cade in ventate di malinconica invidia: non è bella; non avrebbe potuto essere la vittima.

In ciò, rispetto alle altre, è tragica, un gigante in chiaro scuro, e il suo satireggiare inquieto e febbrile, in quanto portatrice di coscienza e contraddizioni, che proprio nella ferita della contraddizione la rendono più scatenata e disperatamente – oserei dire, alcolicamente – crudele.

Per questo prima ho parlato di femmine, e non di donne. Le donne del paese non sono persone, ma femmine-coro, rancorose ed invidiose, succubi alla logica maschile, e quindi in sotterranea competizione frustrata.

Più maschiliste dei maschi.

E chi materializza in scena il male delle vittime?

A parte momenti in cui – bianco vestita rispetto ai tutti in nero – compare la rossa come personaggio del racconto, tre sono le vittime in scena, con diversi gradi di contraddizione. In primis il femminiello, cresciuto ad abusi e pompini, e ora sbeffeggiato e maltrattato da tutti in scena (il vero Cristo), ma tenuto per la sua funzione di simbolo perverso.

Poi c’è la sudamericana, la straniera, anch’essa funzionale inizialmente alla danza del sesso, ma poi spinta dal coro a suicidarsi nel fiume, come controfigura dei peccati carnali della rossa. Infine c’è il vecchio – uno splendido e toccante Giancarlo Porcacchia – che guida sì la giostra, calpestando il suo amore in sesso e parodia, ma che disperatamente interroga e maledice il femminiello e il fiume, perché gli restituiscano uno la memoria e l’altro il corpo del suo amore.

E che lo fa, sul finale, con infinita e piangente mestizia, ma anche appoggiato ad una splendida epifania simbolica. Accasciato sull’impalcatura, in avanscena, nel buio, lascia cadere dal petto petali rossi. Lacrime di sangue, pensieri d’amore, fiori sulla tomba immateriale, sull’acqua che scorre.

Un gesto petrarchesco.

Con tutto questo abbiamo dato a sprazzi l’idea del discorso, ma non certo reso la fluvialità visionaria del testo-spettacolo, che è data dal ritmo dei mutamenti di scena, tra sadismi, litanie comiche, fantasmagorie e metamorfosi, giochi di contraddizioni, cambi di tono.

Citiamo comunque alcuni punti salienti, per tentare di darne un’idea.

Ad un certo punto una popolana fa una tirata minimizzante sulla pupazza come dissacrante della morta. Si usa. E cita con comico veloce elenco litaniante la serie allucinante di sante cattoliche fatte a pezzi, ma ora al centro di processioni. Voci contrarie? Fastidiose! Ma anche dubbi amletici. Parlare o non parlare? Più avanti sembra che si risponda di sì. Sono tutte storie uguali, ma occorre ricordare. Poi però la storia della rossa venduta dai genitori viene gestita con comica maestria da pantomima da commedia dell’arte, col viso in maschera. Una comicità che sminuisce la tragedia, e collude col mercimonio.

E sarebbe comunque  comico, se non fosse che dietro ai comici, a commentare malevoli, si ergono un gruppo di pupazzi altissimi, coperti da veli multicolori, a candelabro, oscillanti e incombenti, con in cima maschere grigie mortuarie. Angoscianti e onirici.

E le stesse maschere mortuarie, in lattice grigio porterà poi sul volto il coro allucinato  delle pettegole che dà la colpa alla rossa.

Altra bella e struggente serie di immagini contraddittorie seguono alla forzata entrata della innocente sotto la pupazza, rito sacrificale di perdita dell’innocenza.

Dopo danze di sesso tra il maschio e le varie femmine, a turno, una in nero e una in bianco, in piedi schiena a schiena, ruotano al ritmo di un carillon, come le statuine di porcellana del dramma.

Poi buio.

La pupazza in testa a lui. 

E lei, la innocente, indossa un manto trasparente di fili dorati e luci, e vortica nel buio in fantasmagorie da farfalla.

Un commovente ultimo canto dell’innocenza, prima di offrirsi al pasto?

E che dire di quando lei, bianca, accasciata per terra, appoggiata ad un tavolaccio rovesciato – figura della memoria a cui il vecchio amante chiede scusa – viene da dietro, dall’alto, insidiata ed avvolta, come da un ragno mortuario, da volto e mani in lattice grigio, pupazzo mosso da un’ombra dietro il tavolaccio

Un concerto onirico dunque questo spettacolo. Scatenato, struggente, circo di contraddizioni, vittime, accuse.

Compagnia Fort Apache Cinema Teatro

Ed uno spettacolo corale, in cui questo gruppo di attori, ex carcerati, ma ormai esperti performer (e alcuni vincitori di premi), scintillano tutti, anche se non a tutti so dare nome.

Uno spettacolo a cui si applaude, sgomenti.

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Mercoledì delle ceneri, scritto e diretto da Valentina Esposito – con Alessandro Bernardini, Fabio Camassa, Luca Carrieri, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Roberto Fiorentino, Marcello Fonte, Sofia Iacuitto, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Claudia Marsicano, Giancarlo Porcacchia, Cristina Vagnoli, Camila Urbano – aiuto regia: Bruno Mello Castanho – costumi: Mari Caselli – assistente costumista: Costanza Solaro Del Borgo – fantocci Mari Caselli e Costanza Solaro Del Borgo – sarta Iris Ros – teste in lattice Gemelli Magrì – ideazione scenografica Valentina Esposito – pupazza Edoardo Timmi – musiche Luca Novelli – luci: Alessio Pascale – fonico Simone Colaiacomo – Una produzione Fort Apache Cinema Teatro – Con il sostegno di Ministero della Cultura, Fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese, Sapienza Università di Roma – Progetto di Terza Missione 2023/2024 – Roma, Teatro Biblioteca Quarticciolo, 23.11.2024