Il circo dell’inedia

Legami e legacci nel nulla

Il testo di Scimone – Il cortile – di recente in scena a Roma (Argot Studio), benché di ormai venti anni fa, regge bene, e scalda il pubblico, con continue risate a scena aperta, sulla tela di un angoscioso ma anche lieve circo del nonsense, dove in tre (bravissimi) si spartiscono modulate e caratterizzate cantilene, ognuno la sua, in una danza di posizioni insieme psichiche e spaziali, dove il ritmo delle pause e dei silenzi scandisce lo stralunato stupore, modula la sospensione del tempo in un non tempo, e ha il suo corrispettivo nella regia icastica di uno spazio fatto prevalentemente di vuoti, e dove accurata è la gestione della prossemica e del ritmo.

Peppe siede perennemente a sinistra, forse su un bidone sfondato, mentre a destra si aggira Tano, tra una madia crollata, pendente, ed i resti di una motocicletta distrutta.

Dietro, nella penombra quello che sembra un lungo cavo metallico teso in diagonale fino al soffitto, come ad indicare un altrove, ma che, con un effetto Flatlandia (per l’angolo di visione), si rivelerà essere in parte una scala, e dunque percorribile.

Una verticale che fa apertura al sogno forse, lievemente contraddicendo l’orizzontalità senza orizzonte di questo non tempo del degrado, che non passa.

Siamo pienamente nella grammatica beckettiana, direi addirittura in un felice manierismo beckettiano, che ruba da più opere del maestro la tela e l’ordito, ma forse con un di più di matericità e fisicità meridionali, come è tipico della sicilianissima e universale compagnia Scimone Sframeli.

La tela e l’ordito.

Tre figure sperdute nel nulla di un non so dove: Peppe, Tano, Uno.

Peppe dipende da Tano come Hamm in Finale di partita dal suo servo Clov, ma anche come, Pozzo, in Aspettando Godot, dal servo Lucky. Dipende ed al contempo sadizza, come è nella dialettica servo padrone, dove il bisogno è alienazione, e il potere illusione. Allo stesso tempo Peppe e Tano sono clownescamente uniti per la leggerezza ripetitiva e cantante dello scambio dialogico, e per la sottile corrente di amore-bisogno che li unisce nella coscienza della solitudine e della vacuità del tutto. Nella coscienza di essere postumi.

Che dire poi di Uno, che compare da dietro la madia, uomo che striscia nel lamento, e che ricorda sia i genitori di Hamm in Finale di partita (senza gambe, in bidoni della spazzatura), sia il marito di Winnie, in Giorni felici, che può solo strisciare, come Uno, e che legge il giornale a Winnie, come qui Tano a Peppe.

Ed infine Peppe, nel suo ricordare quando con le gambe e le labbra più belle, gareggiava e vinceva su tutti nelle gare di quartiere, e il cui nostalgico volgersi indietro dall’invalidità ed immobilità attuali, sembra ricordare i bilanci esistenziali in L’ultimo nastro di Krapp.  

Infine, last but not least, la corda. In Godot la corda di una impossibile impiccagione come suicidio felicitante, ma anche la corda che lega Pozzo e Lucky nella reciproca dipendenza. 

Corda che qui diventa quella con cui Tano, dopo non esser riuscito a farlo a mani nude, dovrebbe riuscire, imbracandolo, a sollevare Peppe dall’alto del cavo-scala retrostante. Un’operazione fallimentare, perché la verticalità del cavo-scala non è la porta a nessun paradiso, pre o post mortem.

  “Peppe – Perché adesso non ce la fai? / Tano – Pesi di più adesso / Peppe – Sono

    diventato un peso morto adesso / Tano – Non sei diventato un peso morto /

    Peppe – Tirami su allora / Tano – Sono stanco / Peppe – Anch’io”

E del resto alla corda scala si appoggia Tano quando esibisce il sogno dell’amore, che in realtà è atto masturbatorio su una rivista lì a terra, da tutti usata prima di lui

   “Tano – Sorride sempre / “Peppe – Anche quando fa l’amore? / Tano – Sì”

Dove la fantasia dà alla foto una partecipazione che sottolinea il patetismo dell’irrealtà, una irrealtà che tuttavia diventa nei due pervicace volontà di sopravvivenza, nella fogna dei sogni.

Legami o legacci? Convivenza o prigionia? Felici o infelici?

E’ difficile dirlo. In realtà, come in Godot, sembrano non rinunciare mai. 

Distanti ma vicini. 

Peppe che domanda ordina manipola seduce, talora (col terzo, Uno, cioè l’estraneo) sadizza. Ma non solo chiede e ordina. Ripete anche le risposte di Tano, con un effetto d’eco da un lato nonsensico, dilatatore del vuoto, dall’altro di amplificazione dell’ascolto, di un ascolto riflessivo, che è il rimbombo dell’altro in me.

Ma dicevo.

Materici e meridionali.

Più accentuata rispetto a Beckett – accanto al generico male esistenziale – è la dimensione della denuncia sociale, del degrado fisico e morale dato dalle condizioni di vita, dall’espulsività sociale inerente alla povertà e alla comunità escludente.

Vediamolo.

Peppe, quello apparentemente forte, chiede a Tano cibo e acqua. Ha fame. Da diversi giorni non mangia. E accetta, in due scene ripetute, di bere acqua che sembra di fogna, prima lamentandosi, poi assuefacendosi. 

E poi .. 

Chiede un bastone per uccidere un topo. Siamo dunque al barbonaggio. Vita di fogna della povertà e dell’abbandono.

Vita dura reale, non degrado solo metaforico come in Beckett.

E Uno?

Lui non vuole comandare, vuole solo scomparire, o fare pietà. E accetta di strisciare da Peppe per un tozzo di pane ammuffito, che poi manco mangia, per conservarlo per la moglie. E’ stato licenziato, gli hanno tolto i figli (non è chiaro come e perché), e la madre, morta senza sepoltura, è una dentiera in un sacco. Non solo, con splendida disperata maschera piangente in stop motion, lo vediamo espressionisticamente delirare il suo dolore, quando si accorge di non saper distinguere i denti della madre da quelli dei vicini.

Pur di fare pietà, inoltre, si cospargerebbe di merda, e anche così si sentirebbe inferiore al padre che, licenziato e per far pietà, si era fatto fare a pezzi il braccio.

Siamo nel comico grottesco horror.

Ed infine, l’espulsività. Chi gli apre non ha cibo, chi ha cibo non gli apre. Inutile chiedere.

Naturalmente tutto ciò che è indice materico di realtà può assumere anche valenza metaforica. Il pattume è l’esistere come condizione deietta, e il sacco del pattume da cui Tano tutto prende, è l’esistenza stessa nostra. E la fame e la sete, fame e sete di vita e di senso.

Non parliamo poi delle dentiere nel sacco, che oscillano tra l’essere segnaletica del nulla ed il rinviare ai resti fisici (denti, capelli, scarpe) dei gasati di Auschwitz, paradigma dell’uomo come nostro inferno.

Il sacco però troneggia. Il sacco nero di Tano: provvista, residuo, abisso.

Simbolo della sottrazione, della resistenza, della resilienza.

Domanda avvolta in tenebre degradate.

      “Peppe – Il tempo è passato ? / Tano – Un po’ di tempo è passato / 

        Peppe –  Cosa abbiamo fatto in questo tempo .. niente abbiamo fatto 

        Non possiamo più andare avanti senza fare niente .. Se vogliamo 

        andare avanti bisogna fare qualcosa / Tano – Abbiamo fatto qualcosa !! /

       Peppe – Cosa abbiamo fatto ? / Tano – Abbiamo svuotato il sacco

       Peppe – Adesso è vuoto ? / Tano – E’ vuoto ! / Peppe – Non è rimasto niente?/

       Tano – Non è rimasto niente / Peppe – Fammi vedere se è completamente vuoto .. 

        (si avvicina)  A me non sembra è completamente vuoto / Tano – Cosa c’è ancora ? 

        / Peppe –  Il buuiooo .. Tanooo

E qui, con un colpo di coda, l’ambivalenza tragicomica cantilenata si innalza a vertigine abissale. Perché, si badi bene, il buio non è il vuoto, l’assenza di senso. 

Il buio è il mistero del senso. Forse l’incombere della morte.

E il pubblico, dopo aver molto riso, prima di potersi riprendere, incassa il colpo a sorpresa. E qualcosa si insinua a germogliare, mentre l’applauso copre il dubbio.

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Il cortile, di Spiro Scimone con Francesco Sframeli (Peppe), Spiro Scimone(Tano),  Gianluca Cesale (Uno) – regia Valerio Binasco – produzione Compagnia Scimone Sframeli – Roma, Teatro Argot Studio ven 16-19 gennaio 2025

Teatro Roma
Marco Buzzi Maresca

Il circo dell’inedia

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