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Il caso Yara: il pericolo dei media in un caso di cronaca nazionale

La docuserie sul caso della tredicenne Yara Gambirasio non supera “ogni ragionevole dubbio”

Con Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio Netflix riporta all’attenzione un caso di cronaca del 2010 che tenne l’Italia incollata agli schermi. Una vicenda lunga, spinosa e soprattutto tragica, che nasconde tuttora alcune ombre. La vittima è Yara Gambirasio, una ginnasta tredicenne scomparsa e ritrovata senza vita. Massimo Bossetti è il muratore condannato all’ergastolo per l’omicidio della stessa. La docuserie cerca di ripercorrere i fatti sia con filmati ed elementi dell’epoca sia aggiungendo nuove interviste, per la durata totale di cinque puntate. Aldilà dell’effetto intrattenente che prodotti del genere (su cui Netflix sta investendo ancora di più ultimamente) portano, è interessante riflettere sugli esiti legati al caso in sé e alle persone coinvolte. Soprattutto però, è necessario soffermarsi sulle conseguenze e sui pericoli che questi contenuti rischiano di provocare.

I rilievi sul luogo del ritrovamento di Yara

Scelte stilistiche vogliono una narrazione dei fatti frammentata. L’alternanza è per la maggior parte tra i due macro periodi in cui si sono sviluppati i fatti. Da novembre 2010, quando Yara Gambirasio scompare, fino a febbraio 2011, quando viene ritrovato il corpo. E poi il 2014, quando Massimo Bossetti viene arrestato e condannato all’ergastolo. In questo periodo di tempo si svolge una delle indagini italiane più dispendiose, in fatto di tempo, denaro e attenzione. Come mai è accaduto ciò?

Gran parte della docuserie si occupa proprio di portare all’attenzione quanto, in questo fatto di cronaca, i media siano intervenuti in maniera preponderante, diventandone parte condizionante. Fin da subito, complice la brutalità di un evento legato a una ragazzina così giovane e la nebulosità dei fatti, lo sgomento ha reso il pubblico assetato di verità. La stampa e la tv non si sono affatto tirate indietro e hanno investito molto sulla ricerca di informazioni e il racconto di questo caso. Il fatto che, nel 2024, Netflix ne produca una docuserie è un’altra conferma di ciò.

Questa forte concentrazione quotidiana di informazioni ha creato tutta una serie di aspettative e pressioni sugli organi di giustizia che si stavano occupando di indagine e risoluzione della vicenda. Una pressione che ha portato non solo a commettere errori, ma anche, infine, a ulteriori dubbi. Nella serie viene attenzionato un passo in cui, una volta individuato Massimo Bossetti, si registrarono 16 passaggi del suo furgone attorno alla palestra in cui Yara si trovava prima della sua sparizione. Un filmato su cui sono stati creati servizi e trasmissioni intere. Un dato che non ha potuto non concorrere nel convincere l’Italia intera della colpevolezza dell’imputato.

Successivamente però, si scopre che furono le forze dell’ordine stesse a montare quel video, per necessità di narrazione. Infatti, nella serie viene più volte specificata la destinazione del filmato alla stampa, creato proprio in funzione della stessa. L’assunzione da parte della difesa di un complotto per costruire l’immagine di Bossetti come “mostro” agli occhi del pubblico fu una diretta conseguenza. Agli occhi di chi guarda la docuserie oggi invece rimangono solo dubbi. Dubbi che si presuppone siano voluti, poiché non viene mai chiarito se Bossetti passò davvero in quelle zone così tante volte.

Nel complesso si ha la percezione che l’intera costruzione della narrazione sia volta ad accentuare le ombre del caso, più che fare un po’ di chiarezza. Forse sempre per quella necessità di attenzione e sete di verità che ha caratterizzato il caso fin dall’inizio? Non si può comunque ignorare il fatto che le interviste e i contenuti registrati appositamente in funzione della docuserie provengano quasi esclusivamente dalla parte di Massimo Bossetti. Le interviste hanno come protagonista la moglie, gli avvocati e alcuni giornalisti e presentatori che per la maggior parte si mostrano dubbiosi riguardo agli esiti e all’intera gestione del caso da parte della giustizia.

Soprattutto però, la docuserie contiene interviste attuali allo stesso Massimo Bossetti, direttamente dal carcere. Sono interviste in cui appare per una buona parte in lacrime, raccontando tutti i traumi che questa vicenda gli ha causato e soprattutto ribandendo fermamente la sua innocenza.

La peculiarità del caso è legata anche ai risvolti a cui le indagini portarono. Gran parte della concentrazione ruotò attorno al dna trovato sugli slip della vittima. Vennero effettuati test a tappeto in un’area vastissima della zona. Per trovare Ignoto 1, il cui nome corrispose poi a Massimo Bossetti, si passò prima per l’individuazione del padre e poi della madre. Il padre biologico di Bossetti però si scoprì essere un altro rispetto a quello di cui portava il cognome.

L’intera famiglia fu quindi sconvolta dalla scoperta che nessuno dei figli di Ester Arzuffi avrebbe dovuto fare di cognome Bossetti. Tutto ciò affiancato da una costante smentita della protagonista di questa singolarità. La serie racconta anche di tradimenti da parte della moglie di Bossetti e un’attenzione e sviscerazione della privacy di tutti i componenti.

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Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio si conclude con tante domande lasciate in sospeso. Forse per la conformazione del caso stesso, forse per necessità di racconto, la narrazione è sbilanciata sui dubbi e le perplessità che tuttora persistono. La conclusione vede Massimo Bossetti condannato all’ergastolo. Non è stato mai individuato con certezza il movente, nonostante si presupponga l’aggressione sessuale, né la ricostruzione dei fatti.

Il caso Yara: oltre ogni ragionevole dubbio – regia di Gianluca Neri