Il canto eroico degli Inti-Illimani

Cinquant’anni fa il golpe in Cile e l’esilio in Italia. Horacio Duràn: «Ricevemmo la notizia in cima alla cupola di San Pietro»

L’11 settembre del 1973, Horacio Salinas, Horacio Duràn, José Seves, Max Berrú, Jorge Coulòn e José Miguel Camus, si trovavano a Roma per un concerto. Erano gli Inti-Illimani: all’epoca una tra le più emergenti e applaudite compagini musicali, nata in Cile nel 1967, certamente già affermata anche a livello internazionale, ma ancora con un potenziale artistico-popolare da svelare a gran parte del pianeta.

«Eravamo in viaggio già da tempo – ricorda Horacio Duràn, storico leader del gruppo, che abbiamo incontrato al bar del teatro Tor Bella Monaca qualche minuto prima dell’inizio dell’ultimo concerto, grazie all’intercessione di Valentino Saliola, organizzatore dell’evento – per una lunga tournée in tutto il mondo. Malgrado la Guerra fredda che incombeva, sembrava essere un periodo di distensione per i tanti paesi oppressi dalle dittature, dalle false democrazie, dalle guerriglie interne. E noi portavamo in giro la nostra musica felice. Una musica fatta con le dolci sonorità popolari delle Ande, un Sudamerica per molti, all’epoca, ancora sconosciuto; una musica che per noi cileni aveva un significato particolare. In quel momento esprimeva l’esplosione di felicità per la conquista della nostra libertà».

Chiariamo subito: gli Inti-Illimani non hanno mai avuto una parte attiva nel movimento politico cileno, ma pur rimanendo fedeli all’ambito musicale sono stati – loro malgrado – insigniti di un unanime consenso popolare, se non prettamente politico, sicuramente sociale a livello mondiale. Nei primi anni Settanta hanno rappresentato musicalmente la vittoria del socialismo di Salvador Allende sulla severa destra democratica di Eduardo Frei: il Cile finalmente aveva un Compañero Presidente (così veniva chiamato Allende dai suoi sostenitori), un socialista leale di orientamento marxista.

E infatti nel bel mezzo dell’estate boreale partirono per l’Europa per portare il loro canto di entusiasmo: uno su tutti, il più famoso, El pueblo unido jamás será vencido, il popolo unito giammai sarà sconfitto. La canzone è di Sergio Ortega che la scrisse nel 1970 per festeggiare la vittoria del governo di Allende, e per dare un’unica voce liberatoria al popolo cileno.

«L’11 settembre 1973 – continua Duràn – eravamo a Roma, dove ci saremmo dovuti esibire. Avevamo già girato mezza Europa: Mosca, Berlino, Praga, Milano. E ora ci aspettava la Città eterna. Era un momento di grande felicità spezzato, purtroppo, dalla più brutta notizia che potessimo ascoltare. Eravamo tutti in visita alla basilica di San Pietro quando ricevemmo la notizia, proprio in cima alla Cupola.»

In Cile, a Santiago, le forze armate lanciarono un attacco contro la Casa de la Moneda, il palazzo presidenziale occupato da Salvador Allende, e attuarono il colpo di stato con cui si instaurò la dittatura del generale Augusto Pinochet che tenne in ostaggio il paese per 17 anni, fino all’11 marzo del 1990.

Gli Inti-Illimani nel 1973

«Ci raggiunse un giovane che salì le scale di corsa. Sapeva che eravamo lì. E ancora affannato ci diede la tremenda notizia. Rimanemmo tutti in silenzio. Ci guardavamo l’uno con l’altro e non sapevamo cosa dire, non riuscivamo neanche a confortarci tra di noi. Fu un momento drammatico che non dimenticherà mai

Un annuncio che per gli Inti-Illimani significava l’esilio.

«Un esilio forzato, obbligato: un sentimento che ti arrovella e ti consuma e non ti lascia più per tutta la vita. Tornare in patria sarebbe stata una follia. Non ci avrebbero mai più dato il permesso di uscire. Per fortuna eravamo in Italia e siamo stati accolti a braccia aperte. Chiedemmo asilo politico e ci stabilimmo a Genzano, dove nacque la mia seconda figlia. Eravamo partiti per la tournée con le nostre famiglie. Siamo rimasti qui con voi fino al termine della dittatura, arricchendo i nostri studi musicali, continuando a lavorare e conoscendo molti artisti italiani. Abbiamo proseguito la nostra vita in giro per il mondo, avendo acquisito, da esuli, una seconda patria. Devo molto all’Italia.»

In quel momento, e con quelle critiche circostanze storiche, accadde qualcosa di straordinario: quello che fino a poco prima era considerato l’entusiasmante canto liberatorio degli Inti-Illimani, nell’ora del dolore di un’intera nazione, assumeva la potenza di una eroica celebrazione per il fallimento e la delusione di un popolo vessato da uno spregiudicato dittatore, e diventava l’emblema della lotta contro chi nel mondo tentava di prevalere con la forza delle armi sulla democrazia e sulla serenità della gente.

«Fu tanta la solidarietà di tutti che la nostra voce era diventata la forza di uno slogan contro i soprusi dei governi di tutto il mondo, contro la guerra civile, contro le dittature. Ma noi cantavamo la nostra musica che aveva origini popolari. Non era un canto politico; ma il suono genuino della nostra terra, eseguito con il sicu, con il charango, con il bombo.»

Tuttavia, la musica cilena degli Inti-Illimani divenne, per le masse di tutto il pianeta, la parte sana del comunismo. Non quello esclusivamente politico, non quello fazioso, non quello violento che, di lì a poco, macchiò di sangue anche l’Italia, ma quello che accomuna i più deboli con l’esigenza della partecipazione: quei popoli ingenui che avevano bisogno di unità per sopravvivere.

«In Italia abbiamo conservato delle solide amicizie. Qualche anno fa, per esempio ci siamo esibiti al Mercadante di Napoli in un concerto ideato dal maestro Roberto De Simone, con due voci straordinarie: Giovanni Mauriello e Antonella Morea.»

Qualche anno fa? Era il 1989. De Simone, il mese scorso ha compiuto novant’anni. Lo spettacolo si intitolava: Cantata per Masaniello.

«De Simone, oltre ad essere un musicista straordinario, è un artista con una profonda curiosità storico-musicale. Costruì quel concerto giocando sull’incastro ritmico tra la tarantella napoletana che è in battere e la nostra musica che è in levare. Ne nacque un connubio perfetto. E l’omaggio a Masaniello sembrava sposare perfettamente la nostra storia.»

Salutiamo Horacio con un in bocca al lupo per il concerto (riservandoci l’ultima battuta per il finale). Qualche minuto dopo, alla presenza del sindaco di Roma, Gualtieri, e dell’ambasciatore cileno, Ennio Vivaldi, prende il via la cerimonia per il 50° anniversario del golpe, un momento solenne. La solidarietà tra le autorità e la foto di rito con il direttore del Teatro, Filippo D’Alessio, concludono il preambolo. Sul palco, quindi, arrivano loro: sono i magnifici sette; ma di quel gruppo del 1973 sono rimasti soltanto, Horacio Salinas, Horacio Duràn e José Seves. Si sono aggiunti Fernando Julio, Camilo Salinas, Danilo Donoso e Hermes Villalobos. Dal 2004 formano il complesso denominato Inti-Illimani Histórico che si differenzia per stile e condotta musicale dall’altro che pure mantiene il nome originale.

Cominciano a cantare e immediatamente l’arena del Tor Bella Monaca – gremita per l’occasione non soltanto di attempati nostalgici ma anche di giovani – si riscalda al suono dei loro tipici strumenti. Qualcuno balla sul posto, altri fanno sobbalzare la gamba a ritmo dei brani strumentali più famosi.

«La realtà è più forte della volontà», avverte Duràn (78 anni) dal palco per condividere le sue emozioni per una serata particolarmente sentita. E mentre si alternano gli omaggi musicali ai protagonisti della cultura sudamericana, da Garcia Marquez a Candido Portinari, da Violeta Parra a Victor Jara, il nome di Allende risuona come un’eco costante tra le note delle danze composte dall’altro Horacio, Horacio Salinas (72 anni), l’anima del gruppo.

Il canto eroico: il finale del concerto all’Arena Tor Bella Monaca

«Tutte le cose belle hanno una fine», è sempre Horacio Duràn a scandire tempi ed emozioni al popolo della platea, pardon, al pubblico che comincia a essere ansioso: pretende e incita a gran voce il proprio inno della sopravvivenza: El pueblo unido jamás será vencido. È l’ultimo brano, cantato a squarciagola da tutti, che chiude la festa e il nostro incontro. Qualcuno coi capelli bianchi alza anche il pugno chiuso; Gualtieri no, lui è già andato via! Ma l’entusiasmo di chi si sentiva comunista per un riscatto sociale, per solidarietà nei confronti della ragione di un popolo che oggi non c’è più commuove addirittura.

Horacio – avevamo chiesto salutandoci – il popolo è ancora unito?

Scuote la testa per un mesto dissenso. «La società è molto cambiata. Oggi tutto è diverso. Prima ci si guardava negli occhi, ora ognuno di noi ha lo sguardo puntato sullo schermo del cellulare. La tecnologia ci ha reso individualisti. Non esiste più quell’unione. È soltanto un ricordo.»

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Inti-Illimani Histórico: Horacio Salinas, Horacio Duràn, José Seves, Fernando Julio, Camilo Salinas, Danilo Donoso e Hermes Villalobos. Concerto in occasione del 50° anniversario del Golpe in Cile. Arena del teatro Tor Bella Monaca, 11 settembre 2023

Foto di copertina: la formazione cilena degli Inti-Illimani Histórico, con i tre veterani: Horacio Duràn (primo a sinistra), Horacio Salinas (con berretto e occhiali), e José Seves (a destra in giacca bianca)

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Davide Tovani

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