Buio, tuoni, poi luci sconnesse; s’intravedono nell’oscurità gli oggetti vitrei che abitano la stanza.
Lui e lei non si conoscono ancora, lui le racconta il suo sogno; è il contesto surreale di una narrazione onirica a farsi da premessa iniziale per “Il bambino dalle orecchie grandi” di Francesco Lagi, andato in scena al Teatro Argot Studio di Roma fino al 23 Febbraio.
L’imbarazzo del risveglio, una canzone di Franco Califano, l’estraneità iniziale sulle reciproche abitudini; nell’alternarsi delle micro- scene si sviluppa una narrazione articolata sulla scia di un tempo mai dritto, dove tutto sembra accadere nello stesso momento.
Se la struttura drammaturgica sembra costruirsi sulla successione di aneddoti, corsi e ricorsi sulla quotidianità di una coppia sempre più simbiotica; su di essa si innestano di tanto in tanto piccoli quesiti sull’esistenza che nel continuo rimando ad episodi passati, ad angosce future, contribuiscono a dissestare la presunta linearità della rappresentazione.
Lui registra rumori di cose che si rompono, lei sa cucinare il pesce, ma lui è vegetariano e non sopporta la di lei distrazione; è nella vita condivisa, nel ripetersi del quotidiano che le incongruenze acquistano un progressivo spessore fino a mettere a repentaglio la continuità dello stare insieme: unico leitmotiv nell’intersecarsi dei personali trascorsi è il peculiare carattere delle orecchie grandi, che ora trauma irrisolto, ora motore di reciproca tenerezza sembra rappresentare il fil rouge nella traiettoria del racconto.
Orecchie di gomma! Orecchie a copertone! – dal ricordo dell’infanzia il tempo si sposta al momento del primo incontro, per poi proiettarsi repentino verso l’idea forse ancora fatiscente, di un bambino, di una famiglia.
Tra l’insorgere delle nevrosi, il tessuto grottesco dei sogni, la nostalgia di cose mai vissute o forse vissute più volte, va strutturandosi una pièce dai margini talvolta un po’ offuscati ma che, nell’interpretazione di Anna Bellato e Leonardo Maddalena trae il suo vivace dinamismo.
Illuminato dalle luci di Martin E. Palma, dispiegato sulla scenografia di Salvo Ingala, uno spettacolo che riflette le infinite possibilità dell’esistenza, strutturandosi su un’impalcatura narrativa circolare che, sebbene con qualche elemento di contraddizione, riesce a trovare la sua motivazione e il suo respiro.