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I ricami della tradizione: intervista a Daniele Gelsi

Il costumista Daniele Gelsi racconta il valore della tradizione e della bellezza nel suo percorso artistico e presenta il nuovo allestimento di “Sogno di una notte di mezza estate”, in scena al Teatro Quirino fino al 16 novembre.

Se ne parla sempre troppo poco, eppure ci fanno sognare e vibrare le corde dell’anima, tanto più quando si avvalgono della grande tradizione che li ha connotati nel tempo: i costumi sono un significante prezioso e la loro arte è un sapere antico da custodire e donare ogni qualvolta se ne senta la necessità. Dall’11 novembre al 16 novembre è in scena al Teatro Quirino una nuova produzione, Sogno di una notte di mezza estate per la regia di Daniele Salvo, con una straordinaria Melania Giglio nel ruolo di Puck. Daniele Gelsi, che ricopre il ruolo di costumista, ci fa un grande regalo: una conversazione schietta e sincera sul lavoro messo in atto per questo spettacolo, sull’intramontabile bellezza dei versi shakespeariani e sul rapporto tradizione-contemporaneità nel momento in cui si opera l’adattamento di un classico.

Sarto e costumista, originario della città umbra di Gualdo Tadino (PG), diventa collaboratore strettissimo ed erede di Giorgio Tani, caposarto per quarant’anni della prestigiosa Casa d’Arte Cerratelli di Firenze, definito «il più grande principe dell’arte sartoriale italiana». Da questa figura di spicco della sartoria italiana prende definitivamente forma l’impronta stilistica di Gelsi, basata su uno studio filologico del costume e una fedele e raffinata riproduzione che si accompagnano a sprazzi significativi di libertà artistica in grado di inserire sapientemente la citazione pittorica idonea o l’invenzione inattesa, simbolica o d’effetto.

La coproduzione internazionale Los Borgias, i cui costumi ottengono in Spagna la nomination ai Premi Goya), La figlia di Elisa – Ritorno a Rivombrosa, Il falco e la colomba, Il commissario Nardone. Tutte produzioni di cui cura con maestria e rigore i costumi. Non viene mai meno il teatro: firma gli abiti del Re Lear diretto e interpretato da Michele Placido, gli ultimi spettacoli del maestro Giorgio Albertazzi (Il mercante di Venezia, La tempesta e il revival delle Memorie di Adriano) e per la regia di Giancarlo Marinelli un Re Lear (2016) con Giuseppe Pambieri protagonista, fino ad alcune delle più recenti produzioni del giovane e audace regista Daniele Salvo (Dionysus, il dio nato due volte, Il funambolo, Ho dichiarato guerra al tempo). Con quest’ultimo regista oggi, come anticipato, torna ancora una volta nei reami shakespeariani con un sontuoso sforzo creativo dalla bellezza disarmante. Un Sogno di una notte di mezza estate i cui costumi rispecchiano il fascino di un altro tempo, il congiungersi di due dimensioni inquietanti e misteriose, una umana e una boschiva, che si intrecciano nelle tenebre della notte con un bacio appassionato che dilata il tempo e i confini del possibile.

Che valore ha, secondo te, oggigiorno continuare a mettere in scena adattamenti tradizionali che non sconvolgano il tempo in cui è ambientata l’opera e quindi neanche i costumi e la scenografia?
Io protendo un po’ per la tradizione perché provengo da una vecchia scuola, quella dell’alto artigianato artistico riguardo ai costumi, ma anche per quanto riguarda sceneggiature, scrittura, eccetera. Diciamo che l’attualizzazione che si ha adesso è data non tanto da una scelta di gusto, ma più da un discorso economico. Perché a volte si stravolgono dei testi classici, come quelli di Shakespeare per dire, perché comunque devi fare delle vestizioni, parlo a livello di costume, più attuali dal momento che ti costano meno e sono di facile reperimento. Fare quello che ho fatto in questo spettacolo risulta molto più costoso e non tutti hanno le possibilità. Quindi secondo me il gran valore è quello di riuscire comunque a mantenere la tradizione, strizzando per carità l’occhio alla contemporaneità, ma senza comunque stravolgerla. Non sono assolutamente per stravolgere l’immagine di questi testi da un punto di vista visivo.

Riesci nel tuo lavoro a inserire anche un po’ di contemporaneità, però rispettando appunto la tradizione che mi sembra il punto focale del tuo approccio?
Guarda, io sì, riesco assolutamente, anche perché facciamo teatro quindi devi prenderti a livello creativo assolutamente delle licenze. Diciamo che è anche più facile perché non è che tu fai una ricostruzione museale o filologica quando fai uno spettacolo. Parli di Shakespeare, ambienti nell’epoca elisabettiana, ma ovviamente ti prendi delle licenze per quanto riguarda dei materiali, magari delle forme. Se fai un costume seicento, togli le maniche, già l’hai fatto molto più contemporaneo, ma comunque sia non hai stravolto la forma di base.

Allora, in questa occasione, quali sono state le tue principali fonti di ispirazione, artistiche o storiche, per la tua ricerca visiva?
Allora, il regista aveva un’idea ben decisa. Era quella di uno spettacolo barocco, nonostante sia un regista che spesso mi chiede delle contaminazioni, reinterpretazioni, però voleva comunque non stravolgere radicalmente quest’opera e mi ha chiesto un sapore barocco di tutto lo spettacolo. Io ho chiaramente una buona conoscenza di quel periodo, che è quello elisabettiano, per cui ho attinto da fonti iconografiche che conosco molto bene, ma anche tanto dal mio sapere a mano libera, ti dico la verità. Conosco talmente bene questo periodo storico che magari per me è stato facile disegnare delle forme che lo contraddistinguono.

Ti appassiona l’universo shakespeariano e ciò che ha ancora da dire? Cosa vedi nella poetica shakespeariana di particolare?
Guarda, ti dico la verità, mi affascina molto perché lui conduce al senso, come in questo caso dell’amore, sempre passando per vie traverse. In ogni opera affronta dei percorsi diversi per arrivare poi a quell’obiettivo. Poi i testi di Shakespeare, secondo me, sono attualissimi, anche a distanza di 500 anni, per cui è uno di quegli autori che davvero mi affascina tantissimo.

Di sogno di una notte di mezza estate, cosa ti colpisce in modo particolare e cosa hai voluto mettere in evidenza e trasmettere?
Mi colpisce l’inseguimento e il raggiungimento dell’amore da parte di questi amanti che si ritrovano in un percorso accidentato, dove ne succede di ogni tipo, perché poi ovviamente Shakespeare ci mette del suo, confondendo e mischiando le carte attraverso questi incantesimi. E poi mi piace molto di quest’opera appunto la poetica che dà distinguendo due mondi, quello reale del duca e del matrimonio di Teseo e Ippolita e quello invece fantastico del bosco, grazie a cui lascia intendere che l’amore è un po’ anche fantasia.

Sì, in merito a ciò, come hai caratterizzato la differenza tra il mondo della corte, quello dei teatranti e quello fiabesco leggendario del bosco?
Allora per quello della corte e dei teatranti diciamo che ho, tra virgolette, seguito più una linea rispondente all’epoca barocca, non in modo filologico ma iconografico. Diciamo che, anche se appunto ci sono contaminazioni e licenze, ti ritrovi a leggere quell’epoca, quella realtà.
Invece sul discorso del bosco è chiaro che comunque un sogno è una fantasia, per cui nonostante la base sia barocca, tutto è reinterpretato. Ho differenziato anche i materiali, mentre di qua ci sono velluti e pelle, di là ci sono sete, garze, perché è tutta una cosa molto più inventata. Per cui anche le forme di queste creature del bosco sono tutte sfilacciate, per creare proprio l’atmosfera di un anfratto, di un percorso più naturale.

Hai utilizzato anche dei dettagli e colori simbolici?
Il messaggio che ti arriva è una corte molto austera, molto dark, molto dura. Ho voluto infatti usare tutto nero proprio perché incutesse un’atmosfera, non dico di torbido e di terrore, ma comunque di austerità. Diciamo che nella prima parte arrivano questi amanti e sono quasi processati da questa corte, sembra quasi un’inquisizione in realtà. Quindi attraverso il colore nero ho dato proprio quest’atmosfera un po’ lugubre, tra virgolette. Ho utilizzato addirittura il viola, quindi una cosa, non dico funerea, ma sicuramente molto inquietante nella prima parte. Nel bosco, anche se non ho strafatto né colori, comunque prevale il verde della vegetazione, perché comunque siamo con la regina delle fate, per cui il mondo è quello dei folletti. Puck l’ho visto quasi come un uccello, ho utilizzato i colori del pavone, blu e verde.

Qual è il personaggio che ti ha dato più libertà creativa e che ti ha appassionato maggiormente?
Sicuramente la parte del bosco. Con Oberon e Titania mi sono divertito, ma anche indistintamente gli spiriti del bosco. Mi ha dato particolare soddisfazione la realizzazione della fata, che ha un lavoro molto complesso, con questo busto tutto d’oro e il resto del costume tutto di seta, con questi pantaloni sotto al ginocchio. Molto particolare. Riassumendo ognuno di loro. Non posso dire ce ne sia infatti proprio uno preferito. Diciamo che la parte fantasiosa è quella che mi ha dato più soddisfazione a livello creativo.

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