Giulio Cesare tra sangue, potere e media nell’adattamento contemporaneo de Il Mulino di Amleto
Il Mulino di Amleto / A.M.A. Factory, compagnia guidata da Marco Lorenzi e Barbara Mazzi, ha portato in scena, nell’ambito della stagione 2025/2026 di Fertili Terreni Teatro, Giulio Cesare o la notte della repubblica. Lo spettacolo aveva debuttato lo scorso ottobre nello spazio dell’ex cimitero di San Pietro in Vincoli di Torino, all’interno del Festival delle Colline Torinesi, che figura come coproduttore del progetto.

Il testo si presenta come una riscrittura del Giulio Cesare di William Shakespeare attuata da Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo ; le alterazioni sono evidenti sin dal perturbante sottotitolo, La notte della repubblica, che pone fin da subito lo spettatore di fronte al dramma che si dipanerà davanti ai suoi occhi. Un dramma quasi notturno, che si consuma in una notte plumbea, priva di qualsiasi possibilità di riposo: una notte in cui a dormire è la ragione. È inevitabile, leggendo l’estensione del titolo pensata da Lorenzi, non pensare alla celebre incisione di Francisco Goya Il sonno della ragione genera mostri, che si configura come un monito: quando la ragione si abbandona, emergono paure, incubi e atrocità dell’inconscio. Abbandonata la razionalità, l’irrazionale si manifesta in forma tetra ma al tempo stesso ammaliante, generando una scia di violenza e orrore.
La reinterpretazione è dichiaratamente in chiave contemporanea. Il pubblico segue gli avvenimenti da due gradinate poste una di fronte all’altra, innestate all’interno delle cappelle laterali della chiesa sconsacrata. Al centro della scena si trova un lungo tavolo bianco, che di volta in volta diventa tavolo della politica, tavolo del complotto, fino a trasformarsi in un tavolo anatomico sul quale si accatastano i corpi morenti dei congiurati che hanno posto fine alla vita del tiranno Cesare. Si trasforma infine nel tavolo sul quale, al termine del dramma, Antonio sbrana un pollo arrosto, incurante dei cadaveri dei congiurati che giacciono sanguinolenti. Alle due estremità del tavolo, pendenti dal soffitto, si trovano due schermi verticali sui quali, per gran parte della durata dello spettacolo, vengono trasmesse breaking news, immagini di fronti di guerra, catastrofi naturali e popoli peregrinanti e affamati, che si alternano a spezzoni di talk show.
Questa simultanea alternanza di immagini di natura differente denuncia la vacuità mediatica a cui siamo quotidianamente soggetti. Già a partire da questi schermi, dunque, l’intento non è tanto quello di fornire risposte, quanto piuttosto di interrogarsi insieme al pubblico sugli effetti del bombardamento mediatico a cui siamo quotidianamente sottoposti, o meglio, a cui ci sottoponiamo ogni giorno scrollando su Instagram, TikTok o Facebook. Cosa produce questo flusso incessante di immagini? Come osserva Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, il consumo reiterato di immagini di guerra, violenza e sofferenza tende a trasformare il dolore in spettacolo, generando assuefazione o voyeurismo. È interessante notare come, sebbene il libro preceda l’avvento dei social network, le sue riflessioni si applichino perfettamente al modo in cui oggi circolano online immagini e video traumatici.
La pièce si divide idealmente in due parti: il logos, inteso come pensiero razionale, lentamente degenera nel caos, ovvero nella “notte della repubblica” in cui i personaggi finiscono per annaspare violentemente tra il sangue. A scatenare l’azione sono le preoccupazioni di Bruto, figura che Shakespeare tratteggia come uomo di moralità e riflessione, tormentato da ciò che Cesare sta facendo di Roma, piegandola a sé e mettendo seriamente in pericolo la repubblica. Cassio, Lepido e gli altri congiurati si stringono allora attorno a Bruto, congiurano contro Cesare e decidono di ucciderlo per salvare il popolo romano dall’asservimento. Scelgono la morte del tiranno per preservare la repubblica dalla deriva autoritaria di Cesare, che, pur rifiutando la corona offertagli dal popolo, si comporta di fatto come un rex. Tuttavia, l’azione dei congiurati si tramuta ben presto in ulteriore violenza e disordine. Le parole di Bruto durante il rito funebre di Cesare, rivolte tanto al popolo quanto a se stesso, ribadiscono le stesse motivazioni che lo hanno spinto all’omicidio. Le sue parole sembrano essere ispirate da una presunta necessità storica. Ma giunge anche il momento della parola di Marco Antonio, che si rivolge al popolo romano. In un primo momento, Antonio tratteggia Bruto e Cassio come uomini d’onore; tuttavia la sua oratoria, ambigua e sordidamente demagogica, non placa la folla ma, al cospetto delle membra senza vita di Cesare, la incita alla guerra civile. L’esito del disordine generato dalla sua parola sarà la sconfitta sia dei congiurati sia di se stesso, annientato dal potere militare di Ottaviano.
Il discorso funebre di Antonio per Cesare rappresenta dunque il momento del rovesciamento: il varco di passaggio dal logos al caos. La massa, di fronte alla pura abilità retorica di Marco Antonio, nel testo shakespeariano esclama: “Lo ascolteremo, lo seguiremo, moriremo con lui”. Nell’adattamento di Lorenzi queste battute non vengono pronunciate, ma è come se risuonassero negli intervalli di silenzio che scandiscono il discorso di Antonio. Egli appare come un demiurgo sicuro e consapevole della propria forza, un individuo che, per sentirsi potente, necessita soltanto dei propri umori maligni e di una folla che lo acclami. Egli ha soltanto bisogno della massa-pubblico che, silenziosa, lo segua nella sua orazione. Nello spettacolo, il fantasma di Cesare appare attraverso gli schermi, ridendo beffardamente del destino crudele che attende Bruto, Cassio, Lepido e gli altri. Un destino che loro stessi hanno innescato, credendo ingenuamente di salvare la repubblica eliminando chi la stava deturpando. L’idealismo cieco che ha mosso i congiurati non ha fatto altro che generare ulteriore violenza e morte, dando avvio alla guerra civile nei territori romani, che segnerà la fine della repubblica nata nel 509 a.C. con la cacciata di Tarquinio il Superbo e che condurrà all’instaurazione dell’Impero sotto la guida di Cesare Augusto (Ottaviano).
Con questo lavoro di reinterpretazione in chiave contemporanea del testo shakespeariano che si colloca a cavallo tra i drammi storici e le tragedie familiari, Marco Lorenzi conduce il pubblico di fronte a grandi questioni, insinuando interrogativi senza — fortunatamente — offrire risposte precostituite. Mette ogni spettatore di fronte alla dialettica contenuta nel testo del drammaturgo inglese tra parlamentarismo e dittatura, di fronte alla fragilità della democrazia minacciata dalla demagogia performativa di un potere che si presenta come espressione del popolo.
Le domande che emergono dalla visione di questo nuovo lavoro de Il Mulino di Amleto sono molteplici. Uscendo dal vecchio cimitero di San Pietro in Vincoli, si porta con sé un carico di dubbi e interrogativi di natura politica, ma anche questioni di ordine estetico. Ci si chiede quando e in quale misura sia giusto rendere contemporanei testi che forse potrebbero conservare la loro forza critica anche senza un’attualizzazione esplicita. Ci si interroga sulla direzione che il teatro sta prendendo nel campo delle traduzioni e degli adattamenti. Una domanda, tuttavia, desidero porla io stesso, non solo al lettore — teatrante o meno — ma soprattutto a me stesso: di fronte a una crescente richiesta da parte del “mercato culturale” di attualizzare a ogni costo i testi, quanto è giusto farlo, ammesso che lo sia? Qual è la giusta proporzione tra contenuto e forma perché una pièce possa dirsi realmente politica? Non credo esista una risposta univoca e priva di contraddizioni, ma ritengo che porsi interrogativi di questo tipo costituisca già un valido punto di partenza per una riflessione politica, sociale ed estetica. Credo che sia necessario interrogarsi su queste tematiche, ma anche su altre ancora, per formulare nuove politiche culturali democratiche, reali e sociali, che puntino alla vera cultura e non al consumo incosciente della cultura o, nel peggiore dei casi, della sedicente e amichettistica cultura.

Ritengo che Marco Lorenzi, con Giulio Cesare o la notte della repubblica, attraverso un’attualizzazione del testo condotta in modo sensato, seppur con qualche eccesso che forse richiederebbe una limatura, si sia posto domande di questo calibro e abbia provato, attraverso una sua personale e riconoscibile estetica di valore, a rispondere nel modo più intelligente: generando nuove domande, che non riguardano soltanto il regista, ma coinvolgono la comunità che si raccoglie attorno al teatro, non come semplice consumatore, bensì come parte integrante e imprescindibile di un tessuto sociale di cui non si può fare a meno.
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Da William Shakespeare – Adattamento drammaturgico e riscrittura Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo – Progetto Il Mulino di Amleto / A.M.A. Factory – Regia Marco Lorenzi – Collaborazione artistica Barbara Mazzi, Rebecca Rossetti, Daniele Russo – Con (in o.a.) Vittorio Camarota, Yuri D’Agostino, Raffaele Musella, Francesco Sabatino, Alice Spisa, Angelo Tronca – Con la partecipazione in video di Ida Marinelli e Danilo Nigrelli – Regista assistente Barbara Mazzi – Assistente alla regia Federica Gisonno – Training a cura di Rebecca Rossetti – Disegno sonoro Massimiliano Bressan – Progettazione regia video PiBold / Paolo Arlenghi – Progettazione luci Umberto Camponeschi – Consulenza per scena e costumi Gregorio Zurla – Tecnico referente dello spazio Raffaele Arru – Tecnico di compagnia Pietro Pagliana – Ufficio stampa Raffaella Ilari San Pietro in Vincoli Torino dal 19 al 30 novembre 2025 – Teatro Fontana, Milano dall’11 al 14 dicembre 2025




